Il fine vita in Pronto Soccorso

Autore tesi: 
Irene Cerofolini
Anno accademico: 
2010/2011

Pubblichiamo di seguito la Monografia di Irene Cerofolini studentessa del 1° anno di Cdl Specialistica in Scienze Infermieristiche e Ostetriche dal titolo Il fine vita in Pronto Soccorso

"...Chiesi al dottore di lasciarmi solo con mio padre, o di lasciarci soli, lui ed io, per quanto era possibile nel trambusto del pronto soccorso. Mentre, là seduto, lo guardavo lottare per continuare a vivere, cercai di concentrarmi su quello che il tumore gli aveva già fatto. Non era difficile, dal momento che, là disteso su quella lettiga, sembrava uno che avesse già combattuto per cento riprese contro Joe Louis.
Pensai alle sofferenze che sarebbero venute, di sicuro, se avessero potuto tenerlo in vita con un respiratore. Vidi ogni cosa, e tuttavia dovetti stare là seduto molto a lungo prima di chinarmi il più possibile su di lui e, accostando le labbra al suo volto scavato e pesto, trovare di sussurrare: -Papà, devo lasciarti andare-.
Era privo di sensi da parecchie ore e non mi poteva sentire, ma, scosso, sorpreso e piangente, glielo ripetei più volte, fino a crederci io stesso...
" (Ph. Roth 2007)

Questo è un passo tratta da "Il Patrimonio" di Ph Roth, e non è altro che uno scorcio della biografia di un padre e di un figlio, due uomini che si stanno congedando in un ambiente estraneo, caotico a loro: il Pronto Soccorso.
Il Pronto Soccorso è il luogo dove giornalmente si fronteggiano due tipi di morte: la "morte improvvisa", inattesa, quella del giovane ragazzo che "non doveva morire" strappato alla vita da un tragico incidente stradale e la "morte ingestibile", quella morte che oggi come non mai la nostra società ha rifiutato, ha nascosto ai suoi occhi, il malato terminale.
Penso alla morte inattesa, quella di un giovane, vittima di un incidente stradale, nel momento in cui arriva in pronto soccorso è una persona che viene privata della sua biografia. E' un corpo che arriva nella stanza di emergenza, spesso senza vestiti, nudo nella sua fisicità ma anche nella sua anima, che viene curato intensamente per ore, con una serie di gesti, azioni, facendo costantemente riferimento ad un monitor: una riga rossa e un numero per il cuore, due numeri per la pressione, una riga di colore bianco per il respiro. Non è più un essere umano, ma l'ometto del gioco in scatola "L'allegro chirurgo" che non deve suonare, diventa la rappresentazione della medicina che lotta per sconfiggere la morte, per valicare quel limite invalicabile.
I continui progressi nei diversi campi della medicina e della tecnologia hanno accentuato la necessità di superare questo limite, facendo intravedere l'immortalità. Questo ha alimentato in ciascuno di noi la paura di morire, tutti quei conflitti esistenziali di cui è intessuta la vita di ognuno di noi: si ha il desiderio di volare e la paura di cadere, il desiderio di vivere e la paura di morire, il desiderio di amare e di essere amati e la paura di tradire e di essere traditi. L'avanzamento della tecnica non ha quindi diminuito, bensì aumentato le incertezze provocando l'allontanamento, la negazione di tutto ciò che ci fa paura, in prima cosa la morte.
C'è un momento, durante l'assistenza al paziente critico, in cui rimani apparentemente solo perchè la tensione si allenta, perchè c'è l'attesa dei risultati radiologici e di laboratorio ed è in quel momento che alzi la testa e per la prima volta guardi la persona. Ti soffermi a guardare i tratti del suo viso, il colore dei capelli, il suo corpo. Sono pochi minuti in cui ti interroghi profondamente, in cui ti chiedi se quella persona, per quella che era la sua vita, il suo credo, le sue abitudini, le sue credenze, avrebbe voluto tutto quel contatto fisico, quella violenta invasione del suo corpo. Poi pensi che forse gli hai salvato la vita, un padre potrà rivedere suo figlio, una moglie potrà riabbracciare suo marito, ma sarà vita quella che avrà? "E' lo scontro con l'assenza della conoscenza biografica della persona morente e dei suoi cari" che fa nascere tutti questi interrogativi.

"Attraverso la cerniera socchiusa della borsetta intravedo la chiave di una camera d'albergo, un biglietto del metrò e un biglietto da cento franchi ripiegato in quattro, come fossero oggetti riportati da una sonda spaziale inviata sulla terra per studiare i modi di vita, di trasporto e di scambio commerciale in vigore tra i terrestri. Questo spettacolo mi lascia disorientato e pensoso. c'è nello spazio una chiave per aprire il mio scafandro? Una metropolitana senza capolinea? Una moneta abbastanza forte per riscattare la mia libertà? Bisogna cercare altrove. Ci vado." Jean-Dominique Bauby "Lo scafando e la farlalla"

Per chi lavora giornalmente in pronto soccorso e si confronta con la morte, razionalmente è sempre difficile accettarla, non c'è mai la reale convinzione che non sarebbe stato possibile fare qualcos'altro per salvare quella persona o la convinzione di essere felici di aver salvato quella vita. La morte è impossibile da eliminare, non può essere rimossa, ne negata, ma oggi più che mai la tecnologia ci ha espropriato del nostro senso di finitudine, della nostra finitezza della vita, di ciò che serve ad ognuno di noi per garantire la nostra dignità, per dire ciò che siamo e chi siamo.
Penso che oggi le tecnologie hanno permesso, soprattutto nella medicina, passi da gigante, ma in certi casi possono essere dei veri e proprio strumenti crudeli che tengono artificialmente in vita un corpo, strumenti che privano la persona della propria biografia. La tecnologia trasforma la morte da un esperienza naturale ed inevitabile della nostra esistenza ad un evento tecnico condotto da un gruppo di professionisti tecnici. E' il limite di Frankenstein, dove tutto è sostituibile, ma nella vita, nella sopravvivenza e nella morte bisogna sempre ricordarsi di mantenere la dignità della persona.

Frédéric Chaussoy nel suo libro "Non sono un assassino" scrive:
"Per un lungo tempo, l'uomo non ha avuto nessun potere decisionale sulla morte. La vita si fermava perchè l'organismo ferito, ammalato, spossato, non funzionava più. Ma oggi con le macchine che mantengono in vita, sappiamo aiutare un organismo che non funziona più, a funzionare ancora, per giorni, mesi ed anni. [...] I confini tra la vita e la morte sono talvolta così sottili, viverci accanto ci rimanda a domande così intime che sarà necessario, a un certo punto, che la società intera accetti di prenderle in esame."

Sartre sosteneva che la finitezza è il risvolto ineliminabile della libertà dell’uomo e non della morte. Nella nostra società moderna la morte però non ha posto, viene negata e rifiutata, ecco perchè si affronta giornalmente in pronto soccorso anche la morte ingestibile, l'anziano che vive in un RSA, il malato terminale.
Ma perchè abbiamo così paura della morte? Perchè ci prodighiamo a strappare da quell'evento così naturale le persone?
Penso che la paura della morte da una parte sia inevitabile, anche se questa è un fenomeno umano. "La morte è quella certezza che ciascuno di noi ha della propria esistenza" , è quell'evento che distrugge il rapporto dell'individuo di cui fa parte e da cui trae la stessa identità sociale. E' la minaccia per il gruppo, è ciò che ci fa sentire fragili e dentro di noi provoca la paura di perdere e veder cancellare la propria biografia.

Sylvie Menard, nel suo libro "Si può curare" scrive:

"La mia vita non è più infinita. E' strano scrivere questa frase perchè tutti dobbiamo morire prima o poi, e lo sappiamo fin dai primi anni di vita. Oggi però la mia consapevolezza di questo fatto ineluttabile è diventata concreta, materiale, mentre prima era un sapere solo razionale, astratto e distante da ogni forma di immedesimazione personale. Forte di questa nuova consapevolezza,rivedo tutta la mia scala di valori e di priorità."

Randy Pausch un giorno, ricevette la notizia che gli rimanevano da 3 ai 6 mesi di vita a causa di un tumore al pancreas e decise di tener la sua ultima lezione, un modo attraverso il quale poter raccontare la propria biografia ai sui figli.

"Ho un problema di sistema. Benchè abbia sempre goduto di una forma fisica strepitosa, ho ben dieci metastasi al fegato e mi restano solo pochi mesi di vita.[...]Nel tempo che mi avanza cerco di insegnare ai miei figli ciò che avrei insegnato loro nei prossimi vent'anni.[...] cosi ho deciso di tenere un "ultima lezione"[...]Con lo stratagemma di una lezione accademica, stavo cercando di richiudere tutto me stesso in una bottiglia che poi un giorno i miei figli avrebbero aperto."

Leggendo il suo libro si capisce come la morte sia anche un "esperienza di relazione" tra il morente e colui che lo assiste e coloro che gli sono cari; una relazione straordinaria, "un confronto insolito, tra chi parte per un viaggio che ha a che fare con l’eterno, e chi ne intraprende uno all’indietro, alla ricerca nel passato dei momenti più significativi". Ecco perchè nessuno di noi è uguale nel morire, ognuno di noi deve poter morire per chiudere la sua biografia come vorrebbe.
Alla finitezza della vita, alla morte va resa quindi la sua dignità, perchè il processo di morire è talmente intimo e personale che io, infermiere, non devo sconvolgere o mutare con le mie azioni, ma lo devo solamente accompagnare perchè non lo posso comprendere.
Oggi in ospedale non si accetta più la morte, è una sconfitta, la morte non è più vista con un evento naturale ma come una morte tecnica, un allarme che suona in continuazione, una linea rossa che diventa piatta. La medicina non è altro che quel gesto tecnico che può ritardare la morte, la può dominare.
Nel passato le persone che si trovavano in ospedale, venivano portate a casa a morire, venivano riportate nella propria sfera dimensionale, riacquistavo così, nella loro ultima fase della vita, la dignità. "Oggi la morte in ospedale, gestione tipica della società occidentale moderna, è una morte burocratizzata, dove il morire si dissolve in una serie di azioni organizzative, dove il funzionale si sostituisce all'umano. E' la morte tecnicizzata, ovvero il morire ridotto ad un fenomeno biologico e igienico-sanitario" .
Nella stanza di emergenza del pronto soccorso, quando la morte vince sull'uomo, sulla medicina, tutti si allontanano da quel corpo, da quella sconfitta e tu cominci a ricomporre quel corpo, a ridargli un senso, a ritrasformarlo in umano; si tolgono fili, tubi, flebo.

"In un letto con le sponde di metallo, sotto un lenzuolo bianco, c'è il mio bambino, tutto solo, con gli occhi chiusi. Sembra che stia dormendo e sognando. Non vedo neppure i fili e i tubi che lo collegano a quei macchinari freddi e ticchettanti [...]" Glenys Carl -Tienimi la mano.

Dopo aver ricomposto quel corpo, spesso avviene l'incontro con i familiari, un momento che inevitabilmente ti rimanda ad una serie di interrogativi profondi, perchè ti chiedi se c'era stato un momento in cui forse potevi farli entrare prima e lasciarli soli; ti chiedi se avergli reso un corpo nudo, composto in un quel modo è quello che volevano. Pensi ad una moglie che riceve la fede del marito defunto e ti chiede, con uno sguardo smarrito, perchè è stata tolta. Pensi a quella madre o chiunque sia che non si avvicina al defunto, perche non ha modo di rendersi conto di quello che è successo perchè non c'era, non era li durante il passaggio del suo caro. Allora ti senti chiedere se ha sofferto, se parlava quando è arrivato, cosa ha detto, e tu infermiere ti trovi a fare da tramite, a cercare di creare quel filo che ricongiunga i defunti con i propri cari, a colmare quel vuoto, quell'assenza, quel momento in cui loro non c'erano. Troppo velocemente abbiamo dimenticato l'importanza del congedo, di quel momento in cui il tempo si dilata, momento dal quale parte l'elaborazione del lutto. Fin dal passato, in tutte le civiltà il congedarsi da chi muore ed elaborare il lutto, coltivando il ricordo di chi è scomparso, riflette il rapporto che ognuno ha con la morte, un rapporto che condiziona la nostra cultura, la nostra vita, anche se, negli ultimi tempo si tende sempre di più ad esorcizzarlo relegandolo ai margini della vita sociale.
Per spiegare meglio questo concetto, nel passato la morte era vista e vissuta come un fatto naturale, un evento caratterizzato e contornato da paure ma anche certezze. La morte aveva due protagonisti importanti, il morente e coloro che lo accompagnavano nel momento della fine, era un qualcosa che avveniva in un luogo sicuro e nell'intimità delle mura domestiche.
La morte quindi non è fonte di particolari paure, non c’è traccia di terrore o disperazione davanti ad essa, è privata, riguarda principalmente i familiari, ma è anche pubblica. Chiunque può rendere visita al morente e le case sono colme di amici, parenti. Spesso le ultime ore o gli ultimi giorni erano caratterizzati da una cerimonia specifica che andava rispettata. La morte non era altro che l’esperienza della naturalità della vita, un’esperienza non solitaria, ma piuttosto una delle più importanti esperienze della comunità.
Ed oggi? Oggi è stato perso tutto questo, molto spesso è un esperienza solitaria, disumanizzata dove il protagonista è solo uno, il morente. La morte nella società moderna non ha più posto: essa rappresenta una sconfitta per la medicina, uno scacco per la tecnologia, un'offesa per l’estetica: ecco perché non si parla quasi mai della morte.
Infatti la civiltà occidentale mostra sempre di più la sua rassegnazione,e la sua angoscia di fronte all'evento morte, perchè quello che la nostra attuale società sogna è di vivere in un eterno presente, ma l’improvvisa irruzione del lutto sgretola in mille pezzi questa maschera che l'uomo moderno indossa.
Da tutto questo nasce il senso, il bisogno di riacquistare il senso del limite, di capire quando doversi fermare e poter accompagnare la persona durante il suo morire, valorizzando così il tempo del morire per aiutare a viverlo in maniera degna.

"Il cancro non mi fa più paura perchè non ho più paura della morte. Certo però che ogni controllo porta la sua parte di tensione: potrebbe essere l'annuncio della ripresa della malattia, e quindi l'obbligo di rivedere per l'ultima volta l'organizzazione della mia vita." Sylvie Ménard -Si può curare

Noi che assistiamo queste persone, quando queste sono coscienti dovremmo metterci accanto a loro, "senza la pretesa di imporgli alcuna direzione, ma lasciandole libere di indicare la loro via" , con l'attenzione prioritaria a far sì che questo processo non avvenga in solitudine.

Dalla Carta dei Diritti Del Morente, elaborata dal Comitato Etico presso la Fondazione Floriani:
Chi sta morendo a diritto ha:
1. Ad essere considerato come persona fino alla morte
[...]
10. Alla vicinanza dei sui cari
11. A non morire nell'isolamento e in solitudine

Si ritorna quindi inevitabilmente anche all'importanza e alla centralità dell'aspetto relazionale emotivo perchè saper ascoltare la persona permette di semplificare il dilemma dell'accompagnamento alla morente.
La Carta di Firenze in due dei suoi articoli sostiene che:
Art 5. Il tempo dedicato all'informazione, alla comunicazione e alla relazione è tempo di cura.
Art 15. La formazione alla comunicazione e all'informazione deve essere inserita nell'educazione di base e permanente dei professionisti della Sanità.

Troppo spesso e troppo facilmente ci nascondiamo dietro la maschera dell'urgenza, ci sentiamo impauriti nell'affrontare il momento del congedo e del lutto, cerchiamo sempre di rimandarlo, di allontanarlo, rendendolo però così innaturale alle persone che lo devono vivere in prima persona. Se con le persone comunichiamo, queste non saranno mai aggressive, la comunicazione ci serve per capire l'altro come se partissimo dalla punta di un iceberg che vediamo; serve per "riconoscere" l'altro, nel suo mistero, nel suo limite, nella sua unicità, nella sua libertà....nella sua biografia.
Qualsiasi nostra azione e decisione presuppone quindi ascolto e relazione e se neghiamo questo, cancelliamo la biografia della persona che stiamo assistendo.

Bibliografia:

- Si può curare. La mia storia di oncologia malata di cancro. -Sylvie Ménard- Rizzoli 2009
- L'ultima lezione. La vita spiegata da un uomo che muore. -Randy Paush con Jeffrey Zaslow- Rizzoli 2008
- Lo scafandro e la farfalla -Jean-Dominique Bauby- TEA 1999
- Tienimi la mano -Glenys Carl- 2006 TEA
- Nelle tue mani. Medicina, fede, etica e diritti. -Ignazio Marino- Einaudi 2010
- Non sono un assassino -Frédéric Chaussoy- InEdition 2007
- Una morte dolcissima -Simone de Beauvoir- Einaudi 1966
- La fine della vita. Per una cultura e una medicina rispettose del limite -Angela Barcaro Apeiron 2001
- La Carta di Firenze 2005
- Carta dei diritti dei morenti -Comitato Etico Fondazione Floriani
- Il problema della finitudine umana: uno sguardo antropologico sull'accompagnamento alla morte -Giuliana Masera- Nursing Oggi 2005
- Quando si muore in pronto soccorso: approccio ai vissuti emozionali - Nicola Ramacciati- Scenario 2010
- La solitudine del morente -Elias- Il Mulino, Bologna, 1985
- Per un'etica dell'accompagnamento. -Viafora C- Bioetica-Rivista interdisciplinare 1/1996
- Antropologia della morte Thomas V. Garzanti Milano 1976

Filmografia:
- Non è mai troppo tardi -Rob Reiner- 2007
- La prima cosa bella -Paolo Virzi-2010
- La stanza del figlio -Nanni Moretti- 2001
- Mare Dentro -Amenabar- 2004
- Autumn in New York - J.Chen- 2000

E-mail: 
info@laborcare.it
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