L’insegnamento del Cardinale Martini. Messaggio di un credente rispettoso del mondo laico

Proponiamo di seguito la riflessione del dott. Andrea Lopes Pegna, Primario pneumologo, Azienda Ospedaliera-Universitaria Careggi di Firenze, pubblicato oggi su Salute Internazionale, riguardante l'isegnamento del Cardinale Martini, credente rispettoso del mondo laico.

Con la consapevolezza condivisa che il momento si avvicinava, quando non ce l’hai fatta più, hai chiesto di essere addormentato. Così una dottoressa con due occhi chiari e limpidi, una esperta di cure che accompagnano alla morte, ti ha sedato”.

Ripensando al messaggio che il Cardinale Carlo Maria Martini ha lasciato con le sue parole ma soprattutto col suo comportamento appare chiaro che il dialogo e l’ascolto che ha avuto con tutti, credenti di religioni diverse e non credenti, è scaturito dalla continua sua ricerca a non accettare mai aprioristicamente principi senza prima averli elaborati, studiati e analizzati con onestà intellettuale e fatti, solo successivamente, propri. Leggendo il suo libro Credere e conoscere (Einaudi 2012) scritto con Ignazio Marino appare evidente che Martini non ha mai accettato passivamente dogmi, ma ha sempre espresso il suo libero pensiero ovviamente contenuto nell’ambito di una persona profondamente credente.

Così quando affronta il problema del rapporto tra la scienza e la Chiesa, parlando delle scoperte scientifiche riguardanti le cellule staminali, scrive “… Non si tratta di accettare passivamente la supremazia della scienza, quello che alcuni definiscono con accezione negativa «neopositivismo», ma di fare uno sforzo per coordinare in maniera intelligente tutta la conoscenza che abbiamo a disposizione. Del resto la storia insegna come la misura aprioristica della Chiesa, e delle religioni in genere, di fronte agli inevitabili cambiamenti legati al progresso della scienza e della tecnica non sia mai stata di grande utilità. Galileo Galilei docet.” L’atteggiamento del Cardinale Martini nei confronti della scienza ricorda il pensiero di Stefano Levi Della Torre che a questo riguardo scrive nel suo recente libro Laicità, grazie a Dio (Einaudi 2012): “… Come diceva Montaigne: «nulla è creduto più fermamente di ciò di cui meno si sa». E per questo, le religioni istituzionali, in quanto depositarie del credere, guardano spesso con diffidenza all’estendersi del sapere. Così la Chiesa perseguitò Giordano Bruno e Galileo, e oggi nutre una preoccupata incertezza nei confronti del darwinismo”.

Martini affronta così con lo stesso spirito, senza ostentare certezze, altri temi scottanti di bioetica quali quelli della diagnosi pre-impianto, dell’adozione di embrioni abbandonati anche da parte di donne single, delle unioni di fatto comprese quelle tra persone dello stesso sesso, del limite delle cure, del testamento biologico, dell’eutanasia. Così, di fronte al problema sulle coppie di fatto sia etero che omosessuali, scrive con coraggio “ … non condivido la posizione di chi, nella Chiesa, se la prende con le unioni civili. Io sostengo il matrimonio tradizionale con tutti i suoi valori e sono convinto che non vada messo in discussione. Se poi alcune persone, di sesso diverso dello stesso sesso, ambiscono a firmare un patto per dare una certa stabilità alla loro coppia, perché vogliamo assolutamente che non sia?”.

Quando viene affrontata la possibilità che oggi la scienza dà di poter selezionare embrioni fecondati artificialmente in base allo studio del loro DNA con la possibilità di evitare la trasmissione di malattie ereditarie (come avviene ad esempio con la trasmissione del gene del retinoblastoma, un tumore della retina che nel cinquanta percento dei casi si trasmette dalla madre al figlio e che conduce alla perdita parziale o totale della vista) Martini afferma però: “… Capisco che l’idea di avere la certezza di mettere al mondo un figlio sano e privo di tutti i geni di patologie ereditarie possa essere come un miraggio che attira molte persone. Mi domando però se non contiene anche elementi illusori, o addirittura negativi. Infatti, accanto alle malattie ereditarie v’è un numero senza limite di malattie acquisite, di handicap o malformazioni possibili, anche a causa di incidenti. Non vorrei che si desse l’illusione di avere escluso tutto ciò. …”.

Venendo a parlare del pensiero del Cardinale Martini su altri problemi di bioetica quali quelli delle scelte di fine vita, dell’eutanasia e del testamento biologico, si può senz’altro affermare che Martini ha sempre avuto grande rispetto per scelte di fine vita, spesso molto sofferte, anche se non rispecchiavano le sue convinzioni in merito. Così, quando parla di Piergiorgio Welby che dopo nove anni di ventilazione meccanica invasiva chiese la sospensione di questa terapia di sostegno vitale, così scrive: “… situazioni simili saranno sempre più frequenti e la Chiesa stessa dovrà darvi più attenta considerazione anche pastorale”; appare quindi chiara la sua contrarietà a quella che è stata la scelta della Chiesa che ha rifiutato il funerale religioso per Piergiorgio. Riguardo invece al testamento biologico e alla vicenda di Eluana Englaro, che nel libro scritto con Marino, viene ricordata con le bellissime parole del poeta Guido Ceronetti «priva di morte e orfana di vita», Martini appare critico riguardo una legge, quale quella approvata in Senato (meglio conosciuta come DDL Calabrò[1]), che tra l’altro, va ricordato, all’articolo 1, comma 1.c, vieta ogni forma di eutanasia assimilando così la scelta di sospensione delle cure di sostegno vitale all’eutanasia attiva e al suicidio assistito e all’articolo 3, comma 5, precisa che: “… alimentazione e idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, devono essere mantenute fino al termine della vita, ad eccezione del caso in cui le medesime risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo. Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento…”. Riguardo ad una legge che regoli le Direttive Anticipate di Trattamento, Martini così scrive: “… La legge si basa sul principio di indisponibilità della vita, che non è da considerarsi come privo di eccezioni. Partendo da questo punto si potrebbe immaginare di ripensare la legge per renderla più aderente alle reali necessità degli ammalati. Ma si deve anche tenere conto delle ragioni dei molti che dubitano sulla possibilità di provvedere a tutti i casi reali che si incontrano nel momento della malattia mediante le regole precise che si scrivono in una legge. Qui è necessaria la terapia del dolore e molta comprensione per chi, entrato in una esistenza estrema, se ne voglia liberare”. Mi viene nuovamente in mente quanto scritto a proposito da Stefano Levi Della Torre (Laicità, grazie a Dio): “… L’impietosa campagna clericale contro l’autodeterminazione della persona, della persona circa la propria vita e la propria morte … suggerisce l’ipotesi che la stessa Chiesa voglia recuperare un suo antico retaggio che lo Stato laico le aveva sottratto …”.

Le parole della nipote[2] del Cardinal Martini che descrivono come lo zio ha passato le ultime ore di vita spengono sicuramente tutte le polemiche che si sono accese dopo la sua morte e ribadiscono la fondamentale importanza di evitare al morente l’accanimento terapeutico per consentire che il suo trapasso possa avvenire sempre in modo dignitoso e mai in solitudine: “… Poi le difficoltà fisiche sono aumentate, deglutivi con fatica e quindi mangiavi sempre meno e spesso catarro e muchi, che non riuscivi più a espellere per la tua malattia, ti rendevano impegnativa la respirazione. Avevi paura, non della morte in sé, ma dell’atto del morire, del trapasso e di tutto ciò che lo precede. Ne avevamo parlato insieme a marzo e io, che come avvocato mi occupo anche della protezione dei soggetti deboli, ti avevo invitato a esprimere in modo chiaro ed esplicito i tuoi desideri sulle cure che avresti voluto ricevere. E così è stato. Avevi paura, paura soprattutto di perdere il controllo del tuo corpo, di morire soffocato. Se tu potessi usare oggi parole umane, credo ci diresti di parlare con il malato della sua morte, di condividere i suoi timori, di ascoltare i suoi desideri senza paura o ipocrisia. Con la consapevolezza condivisa che il momento si avvicinava, quando non ce l’hai fatta più, hai chiesto di essere addormentato. Così una dottoressa con due occhi chiari e limpidi, una esperta di cure che accompagnano alla morte, ti ha sedato. … Chi era con te ha sentito nel profondo che era necessaria una presenza affettuosa e siamo stati insieme, nelle ultime ventiquattro ore, tenendoti a turno la mano, come tu stesso avevi chiesto”.

Martini ha avuto il privilegio di non perdere mai il controllo del proprio corpo. Primo Levi in Sommersi e Salvati (Einaudi 1986), quando spiega come mai nei campi di sterminio erano rari i suicidi scrive tra l’altro: “… «c’era altro da pensare» come si dice comunemente … proprio per la costante imminenza della morte, mancava il tempo di concentrarsi sull’idea della morte. Ha la ruvidezza della verità la notazione di Svevo, in La coscienza di Zeno, là dove descrive spietatamente l’agonia del padre: «Quando si muore si ha ben altro da fare che di pensare alla morte. Tutto il suo organismo era dedicato alla respirazione»”. Vorrei concludere con queste parole di Martini: “… So tuttavia che si può giungere a tentazioni di disperazione sul senso della vita e a ipotizzare il suicidio per sé o per altri, e perciò prego anzitutto per me e poi per gli altri perché il Signore protegga ciascuno di noi da queste terribili prove. In ogni caso è importantissimo lo star vicino ai malati gravi, soprattutto nello stato terminale e far sentire loro che gli si vuole bene e che la loro esistenza ha comunque un grande valore ed è aperta a una grande speranza”. Ancora Stefano Levi Della Torre da me interrogato in merito alle speranze che potrebbe avere un laico alla fine della vita, cosi mi risponde: «Forse si può lavorare sul senso lato di “eredità”, di qualcosa che si lascia ad altri; ma per poter credere in una propria eredità bisogna avere ancora, fino alla fine, un certo senso di sé, il senso di una propria qualche importanza o interesse. Che sia reale o un’illusione. E quelli che hanno perduto la stima di sé, umiliati da malattia umiliante? Certo, la religione è consolatoria, presuppone che un Qualcuno ci ascolti, un Qualcuno a cui affidarsi, su cui proiettare il nostro estremo bisogno di ascolto e di abbandono. Ascoltare è un’opera di misericordia estrema, una valorizzazione magari minima anche di chi si sente un nulla che va verso il nulla. Ma certo è duro dare ascolto a un lamento spesso vacuo e ripetitivo di chi non spera più nulla da se stesso, di chi ha perduto la considerazione di sé. Forse la memoria, aiutare la memoria di qualcosa che il morente ha fatto nella vita per aiutare il suo sogno di lasciare qualcosa in eredità. Nella Bibbia qualcuno muore “sazio di giorni”: forse c’è da augurarsi questa “sazietà” nella fine? E come interpretare questa sazietà di giorni? O forse è meglio sparire non ancora sazi, ancora pieni di vita e di illusioni benefiche?».

Bibliografia

DDL CALABRÒ. Testo per l’esame in Assemblea della Camera [PDF: Kb]
«Così ci hai chiesto di essere addormentato». La lettera al cardinal Martini della nipote Giulia. Corriere della Sera, 04.09.2012

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