Non odierò

Autore: 
Izzeldin Abuelaish
Anno: 
2011
Casa Editrice: 
Piemme

Un testo significativo per i messaggi che contiene e per l'elaborazione del lutto costruttiva, positiva, se è possibile definire così, donare agli altri, volgere al bene un dolore imponente e devastante come quello scaturito dalla morte di un figlio.

Il dolore per la morte sotto i bombardamenti israeliani nella striscia di Gaza nel 2009 di tre femmine degli otto figli, dopo pochi mesi dalla morte della moglie per leucemia acuta, ha accentuato e confermato l'impegno dell'autore per la pace e la convivenza tra le popolazioni palestinese e israeliana, proseguendo le attività a sostegno della pace tra i due popoli, iniziato sin da giovane e continuato nella professione medica. Dopo la morte delle figlie, Abuelaish è emigrato con la famiglia in Canada, chiamato per svolgere la sua attività medica, dove ha istituito una fondazione a href="http://www.daughtersforlife.com" target="_blank">www.daughtersforlife.com a sostegno della pace, del miglioramento delle condizioni di vita nei campi profughi e della popolazione palestinese e, soprattutto, della valorizzazione delle donne attraverso la loro istruzione e inserimento nella vita pubblica per l'enorme potenziale di accoglienza e unificatore insito in loro.
Colpisce la trasversalità, nel suo pensiero e nelle sue azioni, del dolore, della sofferenza e contemporaneamente della pace, in contrapposizione con i sentimenti di vendetta e di odio che i conflitti tra i popoli possono generare. Abuelaish dice che la malattia, il prendersi cura di una persona unisce, facilita la conoscenza quindi perchè è così difficile la conoscenza, l'unione con/dell'altro quando si è in salute? La conoscenza, la curiosità per l'Altro da noi ci deve spingere ad incontrarlo, a guardarlo, a conoscerlo. Solo così si incoraggia il rispetto e l'uguaglianza.
Tutta l'attività professionale di Abuleaish è stata svolta considerando la persona integra con un bisogno di salute, senza tenere conto della provenienza, appartenenza religiosa, culturale ecc, facendo fede all'etica e deontologia. Questo principio è ciò che l'autore cerca di esportare nel mondo civile, comune. Ed è un principio presente, insito in tante religioni, convinzioni filosofiche ma così difficile da praticare nella realtà, presi nel vortice di emozioni spesso distruttive, ri-vendicative piuttosto che tendenti al dialogo, alla comprensione, ma soprattutto alla conoscenza dell'Altro, elemento indispensabile per qualsiasi azione pacificante si tenti di attuare.
Invece di costruire muri, costruiamo ponti di pace. Io credo che la malattia che affligge i nostri rapporti – il nostro nemico – sia l'ignoranza dell'altro”. (pag. 251).
Tutto il libro è pervaso dallo sforzo (riuscito) di non cadere nel sentimento reattivo di odio verso chi, da qualunque parte stia, (penso alla morte del figlio di David Grossman per mano palestinese, ma anche Grossmann non ha mai utilizzato la morte di Uri per innescare o accrescere l'odio bensì il suo dolore è servito per contribuire al dialogo tra i due popoli e cercare la via per garantire il diritto ad esistere ad ambedue i popoli in due stati) compia atti violenti dai quali deriva la morte di persone, spesso civili: “L'odio è una malattia. Impedisce la guarigione e la pace” (pag. 210).
Interessante la contaminazione tra la professione di medico e quella di portatore di pace: il principio etico delle professioni sanitarie, umanitarie di rispettare la vita umana e la sua sacralità non solo durante lo svolgimento della propria attività ma anche nella vita privata e pubblica, al di fuori del luogo di lavoro. E l'importanza dell'esempio e della coerenza tra ciò che deontologicamente indica il codice della professione e la vita personale, per non cadere in comportamenti schizofrenici, scissi tra vita lavorativa e personale.
La reazione della gente normale conferma la necessità di parlarsi, di ascoltare, di agire. E rinforza la mia convinzione che a volte dal male esce qualcosa di buono” (pag. 218).
Significativa la risposta della figlia sopravvissuta Raffah alla domanda di ebrei canadesi in una sinagoga nella quale Izzeldin partecipava ad un incontro, rispetto a ciò che il padre aveva insegnato ai figli sulla convivenza/presenza degli ebrei: lei osserva la platea e dice in ebraico “Vi amo” (pag. 233).
Un'ultima annotazione: Izzeldin Abuelaish è stato candidato al premio Nobel per la pace.

Autore recensione: 
Luciana Coèn
Voto: 
7
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