Raccontami nonno…la mia vita a modo mio

Autore: 
Giorgio Di Rienzo
Anno: 
2012
Casa Editrice: 
Dalai Editore

Giorgio Di Rienzo, critico letterario, giornalista de Il corriere della sera, muore il 23 luglio 2011 dopo quasi un anno e mezzo dalla diagnosi di adenocarcinoma polmonare. Il libro, narrativo autobiografico, ci conduce lungo il percorso di malato, con “permessi di soggiorno” di tre mesi, rinnovati ogni volta che una PET o una nuova chemioterapia permettono al suo tumore di non accrescersi; la narrazione è focalizzata sul rapporto con la nipotina di 8 anni, Teresa alla quale dedica la prima pagina del libro sotto forma di lettera, che gli permette di sostenere la pesantezza e gli effetti collaterali delle terapie grazie alla leggerezza, alla solarità, alla curiosità della giovane nipotina, per la quale inventa storie e si ritaglia momenti di dimenticanza del suo stato, fino a riscoprire insieme la gioia di giocare a basket, principiante Teresa, collaudato giocatore da giovane Giorgio.

Le riflessioni sul tumore, sulle terapie in uso, sulle complicanze, sui rapporti con i medici, sui rapporti con sé stessi quando il bisogno di isolamento, di sostenere da soli la malattia hanno il sopravvento sul bisogno di condividere il proprio stato e chiedere aiuto, avvolgono il libro, insieme ad una autoironia che alleggeriscono la complessità della situazione.
Le riflessioni iniziano dal pregiudizio sul cancro, come fosse malattia contagiosa, sinonimo di morte, dalla difficoltà, passata la prima fase di shock anche per i parenti, amici, colleghi, in cui non si sa più cosa dire né come confortare e allora si defilano, le telefonate diventano sempre più rare e sbrigative. La morte fa paura a tutti…
Seguono quelle relative alla comunicazione della diagnosi, alla chiarezza con cui viene comunicata senza lasciare spazio a interpretazioni errate, ma “Tutto è molto chiaro. Ma so bene che avrei poi dimenticato le parole del professore e coltivato una speranza senza senso di guarire. Sono scherzi che la mente fa a tradimento.” (pag.27)…credo che certe cose, per molti mesi, io non le abbia mai sentite, perché non volevo sentirle…(pag. 56)
Interessanti le annotazioni sui rapporti con gli altri malati. Quando si è attraversati da una grave malattia, difficilmente scatta una forma di solidarietà e complicità con i compagni di viaggio, soprattutto nella fase di acuzie: più facilmente scatta una forma di egocentrismo in cui siamo inchiodati solo alla nostra malattia, sentiamo solo il nostro dolore. Solo in un secondo momento, quando abbiamo accettato l’evidenza dello stato di malattia, abbiamo equilibrato noi stessi, possiamo aprirci all’altro: “La malattia ha un aspetto orrendo. Con ottusa noncuranza riesce a cancellare il dolore altrui. Ci chiude in un egocentrismo devastante all’insolente indifferenza per il dolore che non ci appartiene”. (pag. 80)
E il tempo, quello che ci è concesso ancora di godere in attesa della morte (parola che non si pronuncia mai nei reparti di oncologia o day hospital dove si fanno le terapie e dove certi visi, sempre più deturpati dalla malattia, ad un certo punto non si incontrano più…), quello che viene rinnovato di tre mesi in tre mesi come un permesso di soggiorno può essere una trappola se lo si vive giorno per giorno oppure se si prova a programmare anche un piccolo futuro: “Si può persino progettare un libro, che si continuerà – se possibile – nel trimestre successivo, se il rinnovo del permesso di soggiorno nel mondo sarà confermato….Dall’incoscienza del vivere giorno dopo giorno, senza domandarsi nulla, sono arrivato alla consapevolezza di potermi programmare la vita per qualche mese…Prima potevo restare nel limbo di una sopravvivenza in cui l’unico obiettivo, magari non confessato, rimaneva quello di riempire il tempo. Oggi posso avventurarmi a programmare un piccolo futuro.” (pag. 147)
Importanti le riflessioni sulla qualità della vita durante le terapie, fino a chiedersi se siano effettivamente utili, “regalando” vita in più ma ad un prezzo forse troppo alto rispetto alla qualità per le complicanze devastanti dei “veleni” che vengono introdotti nell’organismo per tenere a tacere il cancro. Dalle domande al costo (“Quanto sono costato solo di farmaci per un anno intero di cure al SSN, cioè allo Stato? Ne valeva davvero la pena se questi possono essere i risultati? Non era meglio che mi tenessi il cancro e accettassi il mio destino di malato terminale, ma ancora in grado di una buona qualità di vita, continuando magari a fumarmi le mie trenta sigarette al giorno, a giocare a golf e tutto il resto?” Pag. 208; “Resta però la domanda che ogni tanto riaffiora: uccide prima il cancro o la chemioterapia?” pag.230).
Commovente la lettera della moglie ai medici, riportata a pag. 237 del libro, dove appunto si chiede spiegazioni sul perché l’informazione non sia stata accurata rispetto alle conseguenze e complicanze delle terapie, tali da desiderare più una morte “semplice” da cancro piuttosto che una morte complicata dalla terapia, per definire poi l’esistenza pena di vita rispetto ad una pena di morte sentenziata con la diagnosi infausta di cancro.
Di Rienzo tramite internet fa ricerche da un certo punto in poi del suo cancro, sugli sviluppi delle ricerche sul cancro, anche della “controinformazione”:
La statistica…parlano di sopravvivenza…ma nulla dicono della qualità di vita…Pare che oggi la società abbia un solo scopo: sopravvivere più a lungo. Che nulla o poco ha a che fare con il vivere bene, con il mantenimento della dignità di sé.” (Pag 257)
Non mi è stato detto però, non so se con abile dissimulazione o in buona fede, che avrei pian piano perso quasi completamente le facoltà motorie e che avrei smarrito la dignità almeno di un’apparente autonomia: che sarei stato condannato non a una pena di morte, ma a una pena di vita.” (Pag 275)

Spunti che riportano alla mente altre esperienze, personali e di amici, conoscenti, dove alla fine, spesso dopo la loro morte, ci si chiede se effettivamente sia stato utile regalare altro tempo di vita (o pena di vita) con una qualità talvolta insostenibile, se valga avere tempo di vita in più o se bisogna imparare a sostenere il tempo di vita inscritto in ognuno di noi o comunque il tempo di vita che la persona ammalata si dà per chiudere con dignità (la sua dignità, non la nostra idea di sua dignità) il cerchio della propria vita. Vero è che risulta particolarmente difficile prendere decisioni con lucidità quando una diagnosi di cancro ti arriva sulla testa e la lucidità perde la sua strada per infangarsi in tratturi dove talvolta o spesso prevale il desiderio di vita ad ogni costo, entrando nel gioco della medicina che tenta ogni sperimentazione per prolungare la vita e non uscirne sconfitta; vero è che la consapevolezza della gravità della malattia per la persona colpita non sempre è chiara, accettata, colta nella sua interezza. Forse, conosciute le volontà della persona come informazione prioritaria, il medico o colui che è deputato a comunicare la diagnosi, oltre alla caratteristica del cancro, dovrebbe essere preciso nel fornire indicazioni anche sulle complicanze in modo che la persona abbia davanti a sé tutte le gamme delle possibilità per vivere e/o convivere e/o sopravvivere con la propria malattia, a sua libera e indiscutibile scelta.

Autore recensione: 
Luciana Coèn
Voto: 
9
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