Storie di vita... Rossana

Pubblichiamo uno dei lavori degli allievi del Seminario sulle Cure di Fine Vita tenuto dalla Prof.ssa Mariella Orsi e dal Prof. Gianluca Favero.

Non c'è dubbio, è proprio lei. Oggi, all'inizio del turno l'ho saputo. E' ritornata Rossana...
La notte s'é sentita male e per ora é stata ricoverata da noi. Vicino alla finestra, come sempre. Mi ha visto, alza in un cenno di saluto la mano sottile con l'anello d'argento che mi sembra all'improvviso troppo grande, quasi esagerato.
Mi inoltro nella stanza mentre qualcosa che non so spiegare mi stringe lo stomaco. Quanto è cambiato in questi pochi giorni il suo volto! Gli occhi sembrano più neri e profondi in mezzo ai lineamenti resi essenziali da quell' aspetto come di carta. Ma c'è sempre quell' armonia indefinibile che ti fa pensare a come a suo tempo doveva essere stata bella. O forse sono io che la vedo con lo sguardo del ricordo?
Quanti giorni saranno passati dall' ultimo ricovero, penso mentre mi preparo a fare la medicazione della linea venosa centrale. Non possono essere più di due, tre settimane. Mi sembra ieri quel giorno tanto sospirato della dimissione. Quel giorno che pareva non arrivare mai.
Mi aveva salutato serenamente, ma la sua stretta di mano era entrata dentro di me come una scossa, come uno spasmo. Chi l' avrebbe detto che ci saremmo riviste così presto?
Mentre ci scambiamo i saluti ho l'impressione che legga nel mio pensiero.
In questo momento non sta succedendo niente. Perchè devo avere paura, mi chiedo. Devo vivere questo momento e basta. Un momento può essere come un anno, la vita di un uomo di trent'anni può essere piena e compiuta come quella di uno che ne ha vissuti ottanta. Dalla cartella clinica so che Rossana sta per compiere sessant'anni. Eppure a me sembra senza età, donna e bambina allo stesso tempo. Mi è sempre stato difficile pensare a una persona in termini di anni. Qui nell' ospedale, poi, è come se il tempo facesse una pausa. Non ti pare che il tempo sia laggiù alla porta, mi aveva detto una volta Rossana. Come se si affacciasse in punta di piedi e rimanesse ad aspettare... Quante volte mi è venuta in mente quest’ immagine buffa, senza senso. Quest’ idea che le cose le puoi guardare sempre con occhi diversi, che anche uno scherzo di parole ti può aiutare in qualche momento ad andare avanti.
Però questa volta... questa volta... Non riesco, non voglio continuare il pensiero mentre prendo il tubicino e delicatamente cerco di fare quello che deve essere fatto.
La linea venosa si insinua nella pelle vicino al suo capo, vicino al suo viso. Quanto vorrei essere esperta. Entrare nel suo spazio intimo con un' abilità rispettosa, con gesti concisi ed essenziali. Avere le mani leggere e precise come un suonatore provetto. Mani che danno vita allo strumento quasi danzandoci sopra, e sembra neppure lo tocchino... Invece sono solo un'allieva, devo stare attenta ad ogni movimento, ad ogni dettaglio, ad ogni indugio che possa aumentare la sua sofferenza.
Un minuto che mi sembra infinito. Rossana mi sorride. Mi ringrazia. Mi parla come se ci fossimo viste tutti i giorni, da sempre.
La sua calma passa come acqua fresca sulla mia anima annodata, tesa come un arco.
Le rispondo, scambiamo due parole mentre fuori dalla finestra avanza il buio, si accendono sul profilo della collina delle piccole luci lontane. Mi è difficile reggere il suo sguardo. Questa volta... Nessuno ne parla, nessuno si avvicina con la parola ad una realtà che sta sospesa come l'aria pesante quando il tempo sta per cambiare in un giorno di calura e di afa.
Ma Rossana ha voglia di parlare, non c'è dubbio. Ad ogni incontro, anche per misurare la febbre, o prendere i farmaci, lei non perde l'occasione di fare un piccolo scherzo o raccontare qualcosa. E a volte anche ride. ‘Ma come farà, poi’ mi dice un’ infermiera. ‘Parla con il dottore, con le vicine, come se si trovasse alla mensa, o al bar, parla tranquillamente, come se niente fosse. E pensare che io già non le sopporto le donne di quella stanza, e le battute cretine del dottore mi danno il nervoso, figurarsi se fossi in quelle condizioni, penso che esploderei, ce n’ avrei per tutti, te lo dico io!’
E’ come se Rossana cercasse dentro di sè qualcosa che valga la pena dire, e il resto lo tenesse per sé.
I suoi occhi a volte sono l’ unica porta d’accesso alla sua sofferenza. Ma non appena la terapia del dolore le funziona, ti regala il suo sorriso. Per ogni piccola cosa ti ritrovi a sorridere con lei.
Solo quando arrivano i figli, tutto cambia. Si dice che sono molto impegnati, che hanno poco tempo. Il figlio maschio viene pochissimo. Sembra imbarazzato, come se non sapesse come comportarsi, come muoversi, dove guardare.
La figlia saluta, poi si siede in silenzio accanto al letto. Ha le sopracciglie aggrottate, lo sguardo assorto. Una bella signora, elegante. Con la coda dell' occhio guardo Rossana, nel suo volto c'è la stessa espressione. Gli stessi occhi dalle ciglia lunghe, occhi che non si incontrano, come perduti. In mezzo tra loro, un carico di dolore troppo grande per poterlo esprimere. O forse, un carico di dolore che in questi mesi si è espresso tutto, come un vaso versato fino all'ultima goccia. Di solito, riesco a malapena ad accennare un saluto. Ogni parola mi sembra di troppo nella sacralità di quel dialogo muto, di quell'incontro imperscrutabile.
Quasi mi vergogno delle nostre piccole chiacchiere banali, dei sorrisi che all'improvviso mi sembrano così inadeguati. Ma so pure che è lei a volere questo.
In quei ‘nostri’ momenti vuole essere libera, vuole essere come si sente di essere. A volte mi parla della vita con un fondo di amarezza. Sa che alcune cose non cambieranno mai. Ma è una realtà che lei ha accettato. Com'è fatta la vita, ormai, lei lo sa bene. E allora tanto vale cercare delle cose belle. Delle cose da ridere, delle cose da condividere.
E magari mi racconta di quanto è grande una balena, di quando un giorno ne vide una.
O di quando da ragazzina tinse con la vernice rossa le scarpe nuove, e non se le sarebbe volute levare mai più.
Rossana è stata trasferita.
L' ho aiutata io, è andata due piani di sopra. In un reparto più bello, più luminoso. O forse è solo la prima impressione. Forse per un momento non sento così forte il peso del dolore, perchè sono volti nuovi, storie di sofferenza che passando con la barella riesco a malapena a sfiorare.
Sistemo tutte le sue cose, mi assicuro che non le manchi niente. Lei si addormenta. Respira lievemente, quasi non si muove affatto, mentre la flebo di morfina scende piano piano con un leggero ticchettio.
Dalla finestra, sul crinale della collina, si vede una casa con due grandi finestre, circondata da alcuni cipressi. Una signora mi dice: 'La vedi quella casa, tu mi devi aiutare, perchè io devo andare là. E' molto importante, ti prego' . Dal primo letto un'altra signora la guarda, poi guarda me e scuote mestamente il capo.
Alla fine del turno torno a trovare Rossana. Mi sento un po' insicura. Faccio bene a rivederla, ora che non è più da noi?
Non c'è ancora nessun parente, lei è sveglia, mi sorride. Con la sua voce esile e tranquilla mi parla, delle solite cose piccole, insignificanti.
Non penso a niente, la ascolto e basta.
Mi parla di un'aiuola fuori dall'ospedale, con degli incredibili fiori blu, che sembrano finti. Di una panchina, che ti invita a fermarti, ed è messa in modo che ti vien voglia di guardare il cielo. Quei fiori, mi dice sono blu ma non è il blu che ti aspetti. E' come se qualcuno avesse preso un pennello, le tempere, e li avesse dipinti ad uno ad uno. Senza perderci tanto tempo, un tocco qua, un tocco là. Un tocco qua, un tocco là!Ridiamo a questa immagine, ridiamo e sto bene così, vorrei ridere, ridere ancora, fino a far uscire il dolore, fino a far uscire tutto il peso di questa giornata.
Penso che potrei portarle dei fiori, tanti fiori. Magari proprio tanti fiori blu. Ma so che non sarebbe una cosa opportuna. Peccato.
'Perchè non mi prendi un caffè, prima che venga mia figlia, ti va?' Mi dice porgendomi delle monetine con un sorriso malizioso. 'Va bene, ma lo deve lasciar raffreddare prima, lo sa?' Certo che lo sa! Il caffè diventa il nostro rito. Ce lo beviamo complici ogni volta che io finisco il turno, e poi me ne vado alla svelta mentre lei aspetta i suoi. Le infermiere mi conoscono. Ci sono anche un paio di miei compagni a fare il tirocinio. Un giorno quando arrivo uno di loro mi chiama: 'Guarda che non c'è, è andata in radiologia'. Ho l'impressione che lei in qualche modo mi aspetti, che tenga conto dei miei orari. Se non posso venire glielo accenno prima di andare via. Una sera mi dice: 'Quando esco da qui, andiamo a prendere un caffè insieme. Ma andiamo proprio al bar, a prenderne uno come si deve, mica questo della macchinetta!'
'Certo', le rispondo, 'eccome se ci andiamo'.
Quanto mi fa bene vedere quel lampo di complicità quasi infantile in quegli occhi così provati.
Quanto sono contenta che la terapia del dolore stia funzionando, specialmente in confronto all'altro ricovero, in cui la sofferenza era talmente impressa sul suo volto, come colpi di scalpello su una pietra.
E' vero che fisicamente stava meglio, in un certo senso. Ora il suo corpo è diafano, quasi trasparente. Anche a tirarla su nel letto, non si fa più nemmeno fatica. E' solo lo sguardo, che è rimasto lo stesso. O quasi, perchè a volte è come se fosse distaccato, irreale.
Come se vedesse delle cose distanti, come se rimanesse intrappolato in un sogno.
Un giorno vedo spuntare dei fili dalle coperte, e accanto a lei un monitor con le sue linee colorate in movimento continuo come la trama di un misterioso, inquietante telaio.
'Sto meglio, non ti preoccupare' mi dice 'ho avuto una crisi ma è passata'. E' pallidissima. 'Quello che mi ci vuole ora, è proprio un caffè' sorride stancamente, ricercando il solito buon umore.
Ma lei lo sa? mi chiedo, e subito capisco, che domanda stupida. Certo che lo sa. Non mi ha forse detto che c'è qualcosa di semplice e meraviglioso nel dono del tempo, tempo per condividere, per riempire, per salutare?
Quando mi sussurra 'Arrivederci' mi suona così strano. Vorrei dirle che nella lingua in cui sono nata, quella di mia madre, non si dice arrivederci.
Che vuol dire in realtà arrivederci? Quando saluti una persona le dici 'Vai con Dio' e questo sì che significa qualcosa!
Ma, naturalmente, non ne faccio parola, mi sembra assolutamente fuori luogo.
Non so nemmeno come mi sia venuto questo pensiero proprio ora.
Il giorno dopo ho il turno di pomeriggio, e appena finito, salgo su in fretta.
Voglio dirle che non potrò più venire così spesso, perchè il mio tirocinio è ormai alla fine. Come glielo dirò? Non le avevo mai parlato del mio tirocinio.
Volevo seguire sempre il percorso dei suoi pensieri, impegnati a sostituire le cose non più necessarie, a utilizzare tutto il suo spazio interno in un modo nuovo e imprevedibile.
Mentre penso a queste cose passo davanti ad una stanza chiusa, con la gente fuori che parla sommessamente, quasi sussurrando. Una ragazza compita, con lo sguardo chino, si appoggia al muro scossa da un leggero brivido.
'Si è sentito male il ragazzo, dentro ci sono tutti i dottori, hanno portato le macchine' dice qualcuno. Subito mi ricordo di questo ragazzo, alto, bruno abbronzatissimo, con gli occhi pazzescamente gialli, che si trascinava debolmente nel corridoio, quasi appoggiandosi all'asta della flebo.
Affretto il passo verso la stanza di Rossana. Il cuore mi batte nel petto, sordamente, come contro un muro di gomma. Mi sento la testa vuota, non so ancora che le dirò. Penso che lascerò parlare lei, e poi si vedrà.
Entro, saluto, mi sembra tutto a posto.
Ma a metà di un passo mi fermo. Lei non c'è. Nel letto, un'altra persona. Una signora giovane, che ora mi lancia un'occhiata lunga, interrogativa. Rimango come inebetita, senza poter tornare indietro, senza sapere cosa dire. La signora del primo letto accanto alla porta mi chiama piano. 'Non se n'è nemmeno accorta', mi dice sottovoce. 'Io me ne sono accorta, ma non ho detto nulla. Ho pregato e basta.' 'Grazie' mi viene solo questa parola, la pronuncio a fatica.
La casa sulla collina ha le due solite finestre accese e per un momento mi sembrano ingrandirsi, come bagliori di un improbabile incendio.
Sono i miei occhi, che si sfocano combattendo contro qualcosa di prepotente che vorrebbe salire. Quanti sforzi faceva lei per ridere un po' insieme, come potrei piangere ora?
Mentre esco veloce, penso a come farò a parlare con le infermiere, se riuscirò a dire qualche banalità. Ma nessuno mi dice nulla. Ora la porta dove sta il ragazzo è aperta, c'è un gruppetto di gente accanto al suo letto. Istintivamente distolgo lo sguardo per non violare quel dolore ignoto.
E mi immergo nel buio del viale, tra gli alberelli, le aiuole, e i giochi d'ombre delle luci notturne.
Sto a respirare avidamente l'aria pungente della sera, ma è come se mi entrasse solo nella testa, a riempirla come un pallone chiuso da un nodo, un nodo alla gola che non si vuole allentare.
Ho un sussulto quando mi sento chiamare. Una voce giovanile e fresca, una mia compagna. 'Non mi avevi riconosciuto, sei proprio stanca. Anch'io, non ne posso più. Ma siamo quasi alla fine. Ce l'abbiamo fatta, anche questa volta. Che ne dici di un caffè?'
Sono grata a questa ragazza, alla sua spontaneità così cordiale, al suo sorriso.
Entriamo nel bar affollato, ci sono dottori, studenti, forse specializzandi. Tutti parlano.
'Tre caffè' mi sento chiedere alla signora del bar. 'Uno da portar via. Per un’ amica...'
Passando, ho visto l' aiuola, quella con i fiori blu che sembrano dipinti. Ho visto pure la panchina.
Mi siederò, aspetterò che la tazzina si raffreddi. La verserò. E mentre il caffè si spargerà sulla terra, saluterò Rossana. Vai con Dio… Questa volta, glielo potrò dire.

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