Essere mortale. Come scegliere la propria vita fino in fondo

Autore: 
Atul Gawande
Anno: 
2020
Casa Editrice: 
Einaudi

“La storia delle politiche pubbliche verso le “nursing home” […] è come descrivere la scoperta del West dal punto di vista dei muli; si trovavano certamente lì, e i grandi eventi di quel periodo ebbero certamente conseguenze cruciali sui muli, ma a quel tempo quasi nessuno prestava loro particolare attenzione.”
Bruce Vladeck, “Unloving Care: The Nursing Home Tragedy”, 1980

Premessa
Atul Gawande è un chirurgo americano di origine indiana; ma prima di laurearsi in Medicina, a 30 anni, si è laureato in Scienze Politiche e, da studente di Medicina, è stato consulente per le politiche sanitarie di Bill Clinton. Da specializzando in Chirurgia, ha iniziato a pubblicare come giornalista le sue esperienze di giovane medico. Da chirurgo, è diventato ricercatore in sanità pubblica esperto di riduzione del rischio in chirurgia e di economia sanitaria, propugnando un modello di assistenza a basso costo ed elevata qualità, contrapposto a quello della medicina tecnologica. Oltre a tutto questo, è scrittore e, poco prima dei 50 anni, ha dato alle stampe Being Mortal. Illness, Medicine and What Matters in the End.
Ovviamente non sapevo nulla di questo quando, con un po’ di scetticismo, ho preso in mano l’edizione italiana del libro, raccomandatami da un’infermiera entusiasta. E quando ho letto l’introduzione, che prende le mosse dall’osservazione che la Facoltà di Medicina prepara a curare la malattia ma non ad affrontare la morte, mi sono venute in mente le lamentazioni che talora si sentono da docenti (più o meno) illuminati sulle carenze dell’Università; la riflessione che apre talora la meritoria divulgazione delle tecniche di palliazione in medicina; o al massimo la riflessione bioetica che accompagna la doverosa promozione delle cure palliative. E non immaginavo che il libro di Gawande non fosse nulla di tutto questo. O meglio, non potevo sapere, come avrei potuto se avessi conosciuto la sua biografia, che il suo libro conteneva tutto questo e molto altro.
Una prima piacevole sorpresa è che “The End” di cui parla l’autore non sono le ultime settimane di vita di un malato terminale, ma l’ultimo periodo della vita – che nell’invecchiamento fisiologico o nelle patologie degenerative dell’anziano è di anni. L’approccio, come chiarisce bene il sottotitolo inglese (un po’ meno quello italiano), è quello di analizzare il significato che può avere quel tempo per la persona che lo vive, per la quale la malattia è solo uno degli elementi (per quanto ingombrante); e nel contempo di capire quali risposte è in grado di dare la Medicina a questa
ricerca di significato – e quanti danni può fare, seguendo le sue astratte linee guida, quando questa domanda viene scotomizzata.
Per larga parte il libro è un esercizio di medicina narrativa, in cui l’autore si mette nei panni del paziente, del familiare, o del medico (spesso in difficoltà). Ma è anche una piacevole indagine socio-sanitaria, utilissima, sulle opzioni e i principali progetti condotti negli Stati Uniti in merito alla residenzialità per gli anziani. Un condensato di riflessioni e indicazioni, molto pratiche, che derivano dalle esperienze narrate. Il tutto suffragato da una bibliografia in appendice, in cui per ogni affermazione viene fornita una voce della letteratura scientifica internazionale. Un mix prezioso di vita, esperienza clinica e dati di ricerca, raccontato con la leggerezza del divulgatore di alto livello, quello che è a tal punto dentro la materia da poterla rendere leggera a chi legge.

Sicurezza e libertà
All’inizio del libro Gawande racconta l’aspirazione all’indipendenza individuale che, insieme alla possibilità di raggiungere età molto avanzate, rappresenta ai suoi occhi la caratteristica chiave della nostra società occidentale. L’autore la confronta con la cultura indiana da cui proviene, caratterizzata, come tutte le civiltà contadine, dalla centralità della famiglia, al cui interno naturalmente vivono, e muoiono, rispettati, i pochi che
raggiungono la vecchiaia.
Quali risposte possono dare la nostra società, e la Medicina moderna, che ne rappresenta uno dei paradigmi dominanti, ai deficit legati all’età e, contemporaneamente, al nostro desiderio di indipendenza? Al (non più) giovane geriatra, allarga il cuore leggere l’elogio dell’approccio multidimensionale geriatrico, fatto dall’autorechirurgo (non sospetto di conflitti di interesse, neppure culturali!), sulla base delle esperienze vissute con i geriatri che ha conosciuto nella suavita personale e professionale, oltre che delle evidenze scientifiche.
Seguendo questo filo, Gawande analizza lo snodo critico del contrasto tra disabilità e aspirazione alla libertà. E lo fa, tra l’altro, narrando la nascita delle nursing home negli USA negli anni Cinquanta, come risposta imperfetta, dettata dalla medicina tecnologica, all’abbandono dei vecchi poveri e malati nell’ospizio.

Non ci guardammo intorno dicendo: «Dunque, c’è questa fase dell’esistenza in cui le persone non possono proprio cavarsela da sé, e dobbiamo quindi trovare il modo di aiutarle ad affrontare questo periodo». No, quello che dicemmo fu: «Ecco una situazione che ha tutta l’aria di un problema medico. Mettiamo questa gente in ospedale. Magari ai medici verrà in mente qualcosa». Fu da queste premesse che, in modo più o meno casuale, prese avvio la moderna casa di riposo, indicata negli Stati Uniti con il nome di nursing home (p. 68).

C’era da pensare che ci saremmo ribellati. Che avremmo dato alle fiamme e ridotto in cenere le case di riposo. Invece non l’abbiamo fatto, perché ci era difficile credere che fosse possibile trovare una soluzione migliore per quando saremo stati così debilitati e fragili da non riuscire a cavarcela con l’aiuto altrui. Ci è mancata l’immaginazione (p. 78).

Ma la vita ha più immaginazione dei sistemi sanitari. E successivamente l’autore esplora quello spazio vasto e largamente sconosciuto alla Medicina che sta tra la fragilità e la disabilità grave, sempre attraverso il racconto di storie, alternando lo sguardo dell’anziano con quello del familiare, in episodi cui la nostra esperienza si può facilmente rispecchiare. Il tentativo della figlia di accogliere nella propria famiglia l’anziano genitore vedovo che non può più vivere solo; la ricerca di attività che possano sostituire l’inevitabile perdita della routine quotidiana; la capacità della persona anziana di adattarsi, almeno in parte, ai nuovi equilibri; la contraddizione tra la richiesta
della presenza dei figli e il desiderio di non pesare su di loro; il tempo del familiare che non basta mai, diviso tra le molteplici esigenze dell’assistenza all’anziano, la famiglia e il lavoro; e, infine, la ricerca di una residenza, vissuta come un fallimento, con sofferenza e senso di colpa dei figli.

Quando la vecchiaia toglieva le forze, sembrava proprio che non ci fosse più spazio per la felicità di nessuno (p. 85).

Ma c’è residenza e residenza, e Gawande racconta, intrecciando il registro dell’intervista ai protagonisti con quello del racconto, le storie diverse e colorate che hanno portato a costruire alternative al modello della nursing home, o a cambiarlo dall’interno, mettendo enfasi sulla valorizzazione della possibilità delle persone anziane di continuare a compiere le piccole-grandi scelte che sono l’essenza della vita.
Paradigmatico in questo senso il racconto della nascita dell’assisted living fatto dalla gerontologa Keren Wilson (Wilson K.B., 2007). Ancora una volta a partire dall’esperienza personale della richiesta d’aiuto da parte della madre rimasta precocemente disabile per un ictus.

Voleva un posto piccolo, con una piccola cucina e un bagno. Dentro ci voleva le cose che le erano care, ad esempio il gatto, i progetti rimasti a mezzo, il suo Vix Vaporub, la caffettiera e le sigarette. Doveva esserci qualcuno che l’aiutasse nelle attività che non poteva eseguire da sola. In quel luogo immaginario avrebbe potuto chiudere a chiave la porta, regolare il riscaldamento e tenersi i suoi mobili. […] Avrebbe avuto la sua privacy ogni volta che voleva, e nessuno avrebbe potuto farla vestire, farle prendere le medicine, o farla partecipare ad attività che non le interessavano. Sarebbe tornata a essere Jessie, una persona nel suo appartamento, e non una paziente nel suo letto (pp. 86-87).

La contraddizione che l’autore racconta, attraverso le parole della Wilson, è quella dell’antitesi tra sicurezza e libertà, tra approccio sanitarioassistenziale e esistenza individuale. Che per definizione non ha risposte semplici, ma che nel modello di società occidentale sembra portare, in modo per certi versi paradossale, a scegliere la tutela piuttosto che la libertà dell’individuo. I motivi sono molteplici, di natura psicologica, giuridica ed economica, e Gawande ne tratteggia alcuni, raccontando il “tradimento” del modello originale dell’assisted living e spiegandolo con le parole della stessa Wilson:

In realtà la residenza assistita è costruita non tanto per gli anziani quanto per i loro figli. Sono i figli in genere a decidere dove andranno a vivere i genitori, come ci conferma il modo in cui le residenze per anziani si promuovono
sul mercato. […] Soprattutto si pubblicizzano come luoghi sicuri. Quasi mai si promuovono come luoghi che danno la massima priorità alle personali scelte di vita di ogni residente. Perché spesso sono proprio l’irascibilità e l’ostinazione con cui il genitore difende le proprie scelte di vita a spingere il figlio a portarlo a vedere una residenza assistita. Sotto questo profilo la residenza assistita ha finito per essere identica alla casa di riposo (pp. 103-104).

Medicina e esistenza
Con un volo pindarico (ma neanche troppo per chi si occupa di medicina geriatrica), nella seconda parte del libro l’autore passa alla sua esperienza clinica personale, sempre attraverso l’antitesi tra le opzioni offerte dalla tecnica medica e il vissuto delle persone-pazienti e dei loro familiari. Il racconto si snoda attraverso alcuni casi visti nella esperienza di chirurgo, per chiudersi con il “caso” più difficile, quello del padre medico, che riassume in sé molti degli interrogativi che il libro apre: l’età che avanza, le potenzialità e i rischi della medicina tecnologica, la scelta di sacrificare qualcosa delle proprie scelte di vita in nome di un suo possibile allungamento, il tema cruciale della comunicazione “aperta” (facile a dirsi!) tra sanitari, pazienti e famiglia.
Ancora una volta Gawande non offre risposte semplici, ma indica un percorso. Raccontando la sua scoperta di una Medicina che si occupa non solo di allungare la vita ma che, in modo complementare, si pone l’obiettivo di aiutare a vivere il tempo che resta meglio possibile. E dichiara che costringere una persona a scegliere tra la medicina
curativa e quella palliativa è un errore, citando a supporto della sua affermazione numerosi studi che mostrano come la disponibilità precoce di cure palliative nei soggetti con malattia neoplastica avanzata, e talora la semplice discussione con uno specialista degli obiettivi da perseguire in caso di peggioramento delle proprie condizioni
di salute, non solo migliori la qualità della vita e delle cure, ma di fatto allunghi la vita (Temel J.S. et al., 2010).

In medicina il fallimento dei nostri criteri decisionali è stato così clamoroso che siamo arrivati ad arrecare attivamente un danno ai pazienti piuttosto che confrontarci con il problema della mortalità. […] La morale che se ne
può trarre è quasi zen: si vive più a lungo solo quando si smette di cercare di vivere più a lungo (p. 170).

La scelta di quando e dove fermarsi con i tentativi di allungare la vita può essere solo fatta “a vista”, di volta in volta, interrogando delicatamente, ma con coraggio, il vissuto del malato. E questa scelta passa per la disponibilità del medico a mettere in gioco se stesso come persona, oltre che come tecnico, entrando in colloquio con le aspettative e le paure di chi è chiamato a curare. Ma richiede anche competenze specifiche nella comunicazione con le persone-pazienti (le “conversazioni difficili”) e con i loro familiari, che l’autore stesso ammette di aver acquisito, talora dolorosamente, sul campo e grazie al colloquio con esperti. E richiede tempo, a volte molte ore e diversi incontri, per capire le priorità dei pazienti, ridurre la loro paura, aiutarli a riconoscere la realtà e a scegliere. Gawande indica la strada di abbandonare sia la vecchia relazione paternalistica, sia quella, ritenuta “moderna”, di tipo meramente informativo, in cui si assume che il medico fornisca dati neutri e il paziente sia in grado di decidere in totale autonomia. Propone piuttosto il modello della relazione “interpretativa”, in cui il primo ruolo del medico è quello di aiutare i pazienti a stabilire cosa vogliono e solo dopo prospettare le diverse opzioni terapeutiche, in rapporto alla possibilità che hanno di consentire al paziente di soddisfare le sue priorità (Emanuel E.J. e Emanuel L.L., 1992). Questo richiede al contempo elevate competenze relazionali ed elevate competenze tecniche, con la capacità di prevedere, e comunicare, i risultati attesi dagli interventi prospettati e le conseguenze del non intervenire.
Indirettamente Gawande dà risposte complesse anche ad alcuni dei problemi di bioetica che periodicamente
riempiono i nostri mezzi di comunicazione. Uno è quello delle direttive anticipate: non tanto è il contenuto della direttiva in sé che conta (si pensi all’enfasi legalistica che, anchenell’ultima versione della legge italiana, viene data al tema!), ma il fatto che paziente e familiari ne abbiano discusso nell’arco della vita e siano disposti a farlo, insieme ai medici, nel momento della malattia critica. Questo semplifica il lavoro del medico, riduce il ricorso alla terapie futili alla fine della vita e aumenta l’utilizzo delle cure palliative (Brinkman-Stoppelenburg A. et al., 2014). Un altro tema che affronta è quello dell’apparente conflitto tra la santità della vita e l’autonomia individuale sulla possibilità di controllare la sua fine (Gawande A.A., 2016). Anche qui la posizione dell’autore è sfumata: è necessario riconoscere il potere delle tecnologie in grado di prolungare artificialmente la vita (tanto da rendere obsoleta l’espressione “morte naturale” che ancora viene usata), e la conseguente libertà della persona di sospenderle.
Ma di fronte alla possibilità del suicidio assistito, che comunque non viene esclusa, Gawande chiede che questo non impedisca di valorizzare, e far sviluppare, le potenzialità della medicina palliativa. Quella che consente di trascorrere il miglior giorno possibile (p. 236) e di vivere con consapevolezza il periodo finale, spesso prezioso, della propria vita, come mostrato da alcuni toccanti episodi raccontati nel libro.

Riflessioni conclusive
In questo bel libro, Gawande indica la necessità di tenere insieme il potere della medicina tecnologica e lo sguardo aperto sull’esistenza delle persone; nello specifico della cura dell’anziano fragile e disabile, difende il dovere di tutelare la libertà individuale anche quando questo possa mettere a rischio la sua sicurezza. Sullo sfondo di
questo difficile equilibrio (Fig.1), l’autore lascia talora intravedere il tema dei vincoli economici, che possono essere una spinta a cercare soluzioni “virtuose” (evitare terapie futili e costose, cercare alternative all’istituzionalizzazione completa), ma anche condurre a deformazioni inaccettabili se da vincoli diventano determinanti unici delle scelte (razionamento degli interventi medici, trasformazione dell’assisted living in RSA di serie B).
L’autore delinea una sfida ampia e indica una prima risposta nella capacità di comunicare, nel senso profondo di “mettere in comunicazione” la tecnica e la vita. Una sfida prima di tutto per gli operatori sanitari, che sono chiamati a compiere gli atti di cura a partire dal vissuto dalle persone. Ma anche un invito per ogni lettore ad inserire la malattia e la morte nell’orizzonte delle proprie scelte di vita, senza pensare che le risposte si trovino preconfezionate nella tecnica medica (o, men che mai, nella legislazione o nella bioetica, nota del recensore). Nella speranza di incontrare sulla nostra strada di pazienti degli operatori sanitari capaci di aiutare ciascuno a trovare le sue risposte.

Bibliografia
- Brinkman-Stoppelenburg A, Rietjens JA, van der Heide A. The effects of advance care planning on end-of-life care: a
systematic review. Palliat Med 2014;28:1000-25.
- Emanuel EJ, Emanuel LL. Four models of the physicianpatient relationship. JAMA 1992;267:2221-26.
- Gawande AA. Quantity and Quality of Life. Duties of Care in Life-Limiting Illness. JAMA, 2016;315:267-69.
- Temel JS, Greer JA, Muzikansky A, Gallagher ER, Admane S, Jackson VA, Dahlin CM, Blinderman CD, Jacobsen J, Pirl WF, Billings JA, Lynch TJ. Early palliative care for patients with metastatic non-small-cell lung cancer. N Engl J Med
2010;363:733-42.
- Wilson KB. Historical evolution of assisted living in the United States, 1979 to the present. Gerontologist 2007;47(Spec 3):8-22.

Si ringrazia per la concessione a pubblicare questo articolo l'autore:
ENRICO MOSSELLO
Unità di Ricerca in Medicina dell’Invecchiamento, Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica,
Università degli Studi di Firenze e A.O.U. Careggi, Firenze

Autore recensione: 
Enrico Mossello
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