Come se io fossi te

“200 anni fa proprio a Firenze nasceva l’infermiera inglese Florence Nightingale.
A maggio scorso l’OMS ha quindi deciso di designare il 2020 come “Year of the Nurse and Midwife”, nonché l'anno Internazionale dell’infermiera/e e dell’ostetrica/o.
Il 2020 era stato quindi preannunciato come anno di festeggiamenti per la mia professione. Tempo di riconoscimenti. Tempo per rendere onore al contributo enorme e meraviglioso che noi diamo alla salute mondiale!
Ed ecco che, come spesso accade nella quotidianità delle faccende infermieristiche, prende il sopravvento la Legge di Murphy. Se c'è qualcosa che può andare male, andrà male. Ed è così che il 2020, ahimè, diventa anno di pandemia.
Si ripongono quindi nei cassetti i cappellini colorati e le vivaci trombette da festeggiamenti e al loro posto ci dotiamo di camici impermeabili, mascherine e visiere. Si devono rimandare le celebrazioni.
Viene richiesto a tutti di fare uno sforzo maggiore e di tenere duro. Di stravolgere l’intero modo di vivere e di lavorare. Chi lavora in sanità si è ritrovato a doversi impegnare il doppio.
Come tutti gli altri professionisti della salute anche noi infermieri/e siamo giunti a esercitare la nostra professione a seguito di una scelta di studio universitaria guidata da un interesse personale. Non si tratta di vocazione, ma di interesse per uno specifico campo di attività umana. Abbiamo un profilo professionale e un codice deontologico, fondiamo la nostra pratica sulla scienza e su valori umani e come tutti si hanno i nostri diritti e i nostri doveri.
Chi fa la scelta di diventare un infermiere/a, non si vuole concentrare solo sulla diagnosi e cura propriamente clinica, ma anche su quello che accade nella mente dei pazienti e delle famiglie e influire sul buono o cattivo tempo nell’ambiente di lavoro.
Di solito se sei infermiere/a ti piace aiutare l’altro e sei affascinato da più aspetti della vita. Ti piace sia il lato teorico che il pratico. Ti piace partecipare al raggiungimento di condizioni migliori. Ti piace fare del tuo meglio per far sentire tutti coinvolti e mantenere la positività attorno a te. Ti piace lavorare fianco a fianco con oss, medici, volontari, ricercatori, fisioterapisti, personale delle pulizie, tecnici, psicologi, assistenti sanitari e via discorrendo, per garantire la migliore qualità possibile di assistenza a chi ne ha bisogno. Ti piace lavorare con e per le persone.
Si tratta di un lavoro di squadra dove la bravura del singolo e la continuità assistenziale fanno un enorme differenza sull’esito. Se sei un bravo infermiere/a su quel letto ci proietti sempre l’immagine di te stesso o di un tuo famigliare e punti sempre a dare il meglio di te.
Essere infermiere è un lavoro figo ma è anche un lavoro molto delicato. Stare accanto a una persona malata, che sta passando un brutto se non il peggiore momento della sua vita, richiede flessibilità fisica e mentale. Devi essere pronta/o a pensare ed agire ad ogni ora del giorno e della notte, pronta/o a scattare, a rimandare i tuoi bisogni fisiologici se necessario, a muovere ed alzare pesi che sono a volte il doppio del tuo, a priorizzare, ad anticipare le problematiche, a lavorare velocemente sulle criticità, a mantenere la calma. Ti impegni ad essere onesta/o, a dire quando qualcosa va oltre le tue competenze, sai quando chiedere aiuto agli altri, sai ammettere i tuoi errori, sei essere un'eccellente comunicatrice/ore, sai trattenere i tuoi pregiudizi e hai infinite risorse di pazienza. Sei l’avvocato di chi è troppo debole per difendersi da solo, sai riconoscere quando è meglio per un paziente essere accompagnato, sai entrare in contatto con l’intimità più profonda delle persone e a maneggiarla con il tocco di una piuma. Sai ricorrere a risorse personali che non credevi di avere, sai dare importanza al lavoro di tutti, sai assicurare la dignità e diritti fondamentali ai tuoi pazienti, sai essere ordinata/o, sai ascoltare, sai cosa è importante per il tuo paziente, sai trattenere le lacrime e saperle lasciare andare altre volte. Sai un po' di tutto, di tante materie, dalle scientifiche alle umanistiche ma non sei esperto in niente se non della complessa gestione infermieristica di un paziente nei diversi setting assistenziali. Sei collante tra le diverse figure in sanità e sai riconoscere quando attivare le giuste consulenze del caso. Sorridi e fai sorridere. Sai improvvisare un disegno su guanto gonfiato a mo’ di palloncino, sulla lavagnetta del tuo paziente intubato e sulla tuta da astronauta. Sai coordinare il lavoro degli altri. Sai prenderti le tue enormi responsabilità. Sai quando è il caso di far sentire la propria voce e chiedere i giusti riconoscimenti per quel che facciamo. Sai tenere a mente che non sei un martire e che devi salvaguardare la tua salute fisica e psicologica e tenere alla larga il burnout.
La situazione attuale sta spingendo tanti colleghi allo stremo con risorse spesso non adeguate. Un pensiero di solidarietà va a i colleghi di tutto il mondo che lavorano in sanità, in particolar modo a quelli dei reparti che si sono trovati schiacciati da questa emergenza e a quelli che si trovano in paesi sottosviluppati. Un pensiero speciale va ai miei amici e colleghi della terapia intensiva del Charing Cross Hospital di Londra dai quali in questi giorni mi arrivano messaggi di disperazione vera e propria. Un altro ed ultimo pensiero lo rivolgo a chi in questo periodo ha perso la vita e alle loro famiglie, il pensiero della morte diventa insostenibile quando non vi è il tempo per un ultimo saluto ai propri cari. Questa è la sofferenza più grande. Ringrazio poi chiunque faccia il proprio lavoro, qualunque sia, con impegno, rispetto ed onestà – perché ad oggi c’è sempre più bisogno di questo.
2020: hi hip hurray agli infermieri!
Francesca’’

Post del 17 aprile 2020

Tramite questo post che ho pubblicato ad aprile 2020 su un social network, ho provato a trasmettere quello che in quel periodo stavo vivendo, compreso lo sforzo fisico e mentale a cui io in prima persona e la professione infermieristica in generale si è trovata sottoposta durante questa pandemia. Da quando sono tornata in Italia, spesso mi trovo a riflettere e a fare confronti con la realtà lavorativa di cui ho fatto esperienza all’estero, e sul fatto che la mia professione (assieme alle altre del settore) qua in Italia soffre ed è affetta da un limite culturale professionale che porta a non mettere la persona al cento per cento al centro della cura. Nonostante all’università ci venga insegnato il contrario, spesso l’assistenza alla persona pare più condotta dalla comodità o il tempo che il professionista sanitario ha o meno, in quel momento, di fare una determinata performance di cura, più che guidata dal reale bisogno della persona malata.

Mi sono laureata in infermieristica a Firenze nel 2013, ho lavorato in Italia fino al 2016 e poi mi sono trasferita a Londra, dove ho vissuto e lavorato fino al 2019. Successivamente sono tornata a Firenze e mi sono ritrovata a lavorare all’interno dell’azienda sanitaria in cui da studentessa svolsi la maggior parte dei miei tirocini. Sia in Inghilterra che attualmente in Italia svolgo per scelta personale la mia professione in terapia intensiva, per stimolarmi a crescere tramite l’esercizio professionale in un ambiente di lavoro complesso ed essendo particolarmente interessata dal tema della morte e delle cure palliative. Questo percorso professionale che ho deciso di fare all’estero mi ha cambiato completamente il modo di vivere la mia professione. In Inghilterra, per la prima volta nella mia vita, ho capito davvero cosa significa essere infermiere e ho capito quale linea devo seguire per migliorarmi quotidianamente come professionista. Ho avuto la fortuna di lavorare in luoghi e con persone che mi hanno dimostrato che ciò che avevo studiato all’università poteva essere davvero applicato alla realtà. Lì non mi sentivo padrona del processo di cura degli altri, ma facilitatrice del processo di cura degli altri. A volte mi sono sentita curata dai pazienti, come quando un mio paziente indiano lucido di mente, ma intubato e in ventilazione meccanica (impossibilitato perciò a vocalizzare), vedendomi turbata mi ha chiesto di raccontargli la mia storia, mi ha chiesto poi una penna, e con la sua mano stanca dalla lunga malattia si è messo a scrivere sulle pagine bianche inziali di un suo libro una breve storia metaforizzata, che mi ha commosso e aiutato. La cultura professionale che si respirava era di rispetto reciproco tra i professionisti e verso i pazienti e c’era una grande sinergia nel lavoro tra équipes. C’era apertura all’altro e al miglioramento continuo. C’era molto più tempo di cura; il rapporto infermiere/paziente non è di 1 a 2 (un infermiere ogni due pazienti) come nella mia realtà lavorativa attuale, ma è di 1 a 1 per dare attenzione massima a una persona che in quel momento sta lottando duramente per la sua vita.
Ho fatto esperienze indimenticabili, che mi spronano a fare sempre di meglio nella mia professione.
Per capire da dove proviene tutto questo mio entusiasmo vi faccio alcuni esempi.
Prima di tutto nella sanità Inghilese di cui io ho fatto esperienza, si crede a ciò che il paziente dice e gli viene lasciata possibilità di decidere per sé stesso. Il processo di cura si adatta alle varie necessità individuali e non è il malato a doversi adattare a un’omologazione delle cure. Altro aspetto fondamentale è che non è solo il malato a essere curato, ma anche la famiglia del malato, tramite diverse riunioni fissate a calendario per parlare dell'evolversi della situazione e per prendere eventuali decisioni critiche insieme. Sempre riguardo la famiglia, dove ho lavorato io c'è la possibilità di rimanere vicino al proprio parente malato in ogni momento e soprattutto vengono assecondate quanto più possibile le diverse necessità personali e culturali.
Alcuni esempi tratti dalla mia esperienza personale: una volta entrando nella stanza di uno dei miei pazienti trovai la famiglia inginocchiata a terra intenta in una delle cinque ṣalāt giornaliere;
un’altra volta trovai sotto il cuscino di uno dei miei pazienti un sacchetto sigillato con dentro dei limoni e delle erbe essiccate, che secondo una tradizione srilankése avrebbero favorito una più veloce guarigione; più frequentemente mi è capitato di portare una tazza di tè alle famiglie inglesi che si stavano trovando di fronte a un lutto o una brutta notizia, e questa tazza di tè sembrava fare davvero miracoli per diminuire il loro distress.
Tutti questi insegnamenti accennati finora sono stati per me davvero importanti, ma tra le cose che più mi hanno colpito c'è quella di aver fatto esperienza di una cultura sanitaria che permette al malato di vivere una buona morte. Infatti, la cultura delle cure palliative è fortemente radicata nella pratica ospedaliera inglese. Il servizio delle cure palliative non tarda ad essere attivato nei casi in cui è indicato. La persona è davvero al centro della cura e così lo è il rispetto per la sua dignità.
Non si smette mai di spiegare al paziente cosa si sta facendo durante l’assistenza anche se si torva in stato di grave incoscienza. Si cerca di mantenere una dignitosa igiene alla persona anche durante il processo di morte. Si assicura la sua privacy mantenendo un rigoroso rispetto per la sua nudità e riservatezza. Si tratta il dolore tramite una terapia del dolore personalizzata ed efficace. Si rispetta le volontà della persona (DNR “Do Not Resuscitate”) e si delimitano e rispettano i limiti da dare alla cura (“Ceiling of Care” nonché limiti al trattamento decisi in accordo con equipe clinica e le volontà e i valori del paziente o della sua famiglia). Si rispetta la spiritualità e il tempo del commiato. Quando vengono attivate le cure palliative il paziente viene spostato quando possibile in una stanza singola nella quale la famiglia ha libero accesso, e tramite l'affissione di un cartello sulla porta con il disegno di un fiore, viene fatto evidente a tutti i professionisti la situazione in modo da saper gestire al meglio i bisogni di quelle persone. Vi è interesse collettivo a mantenere una cultura del rispetto delle persone, del tempo di cura, del rispetto dei limiti.

Da quando sono tornata in Italia e ho ripreso a lavorare in terapia intensiva, non sono mancati degli episodi spiacevoli nell’accompagnamento della fine vita. Spesso si vede rimbalzare la decisione di non elevare il livello di cure per un malato da un medico all’altro, vedendo così lentamente il malato morire in sofferenza e senza la famiglia vicino. A volte si vede un innalzamento delle cure intensive quando ormai è troppo tardi che porta solo al prolungamento della sofferenza. Altre volte accade di vedere prendere la scelta di non procedere all’elevazione delle cure ma in pratica non viene iniziata nessuna terapia di accompagnamento al fine della vita né viene interrotta quella che ormai è stata iniziata, trovandosi così a mantenere il malato con la terapia corrente (che sia ventilazione meccanica o medicinali di sopravvivenza) finché non muore. Per me questi sono importantissimi atti di cura mancati. Per quanto mi ritrovo spesso a correre e ad essere piena di lavoro tecnico quando sono su questa tipologia di pazienti (così ovviamente instabili e critici), sento di non incanalare le mie energie nella direzione giusta. Mi faccio sempre una profonda analisi di coscienza. E su quel letto ci fossi io? O un mio parente?
Penso che il problema di fondo sia culturale, che ci sia il rifiuto dell’idea della morte come parte integrante della vita, che porta alla scadente formazione professionale del personale sanitario e medico nella gestione di queste situazioni e quindi alla carenza di discussione professionali su queste questioni etiche così essenziali. Da questo ne deriva l'assenza di protocolli per le cure palliative nelle aziende sanitarie che sarebbero invece tanto importanti per sollevare in parte i medici dal carico di responsabilità che si trovano ad assumere nel prendere decisioni come quella della sospensione dei trattamenti e dell’accompagnamento al fine vita.
Personalmente, ora che ho fatto questa esperienza professionale all’estero che reputo essere stata così formativa su questo tema, ho voglia di dedicarmi ad aumentare la consapevolezza riguardo le cure palliative per cercare di fare dell’ospedale un posto in cui i dolori (fisici ed emotivi) vengano alleviati e in alcun modo aumentati o prolungati.

Calvani Francesca, Infermiera.

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