L'infermiere e la fine della vita: aspetti antropologici della fine della vita

Autore tesi: 
Francesca Sermanni
Anno accademico: 
2006/2007

Il pensiero della morte è estraneo alla nostra cultura ed in più, è energicamente rifiutato grazie ad una sorta di rimozione psichica, in cui tutto ciò che evoca dolore, viene occultato, generando il motto comune di “vivere la vita come se la morte non esistesse”.
È proprio per questo motivo che nella società moderna, affrontare il tema della morte, è diventato molto difficile se non del tutto impossibile; così molto spesso arriviamo impreparati ad affrontare l’evento quando questo si presenta. Qualcuno sostiene addirittura che la morte ha sostituito il sesso all’interno delle società moderne come principale forma di tabù. Affrontare la morte, soprattutto se è coinvolto qualcuno a noi vicino, come un parente o un amico, è sempre molto difficoltoso, ma forse, se prima di ritrovarci con “l’acqua alla gola”, ci preparassimo psicologicamente ad accettare che la morte fa parte del naturale ciclo di tutti gli esseri viventi ovvero come termine di un percorso, potremmo fronteggiare la cosa in modo più ottimale.
La consapevolezza della morte è un qualcosa che è insito dentro noi, già dalla precoce età (basta pensare al fatto che i bambini giocano a spararsi con le pistole), ma è solo con la maturazione che questo concetto si fa strada e si arricchisce di nuovi particolari per poter così, assumere la giusta importanza che richiede. L’uomo si ritiene maturo non quando raggiunge l’età attribuita a questa fase, ma quando la persona, grazie ad una serie di esperienze, si forma ed è in grado di rapportarsi agli eventi già precedentemente vissuti, in modo migliore della prima volta che questi si sono presentati a noi. È così che possiamo introdurre il concetto della morte come una delle tante forme di esperienza e, quindi di formazione, della vita di ciascun uomo.
La scienza moderna, pur avendo aumentato la vita media dell’uomo, non è riuscita a sconfiggere la mortalità e, mancato l’obiettivo estremo, ha concentrato i suoi sforzi su soluzioni di ripiego, togliendo la morte e il morente dalla vista e, di conseguenza dalla mente.
Razionalmente è sempre difficile affermare che la morte sia un qualcosa che noi possiamo accettare, forse anche per chi lavora a contatto costante con Lei, non c’è mai la reale convinzione che non sarebbe stato possibile fare qualcos’altro per salvare quella persona, ma, se con un po’ di distacco emotivo dall’evento ci soffermiamo a pensare, ci accorgeremo che la morte è impossibile da eliminare, non può essere negata ne tanto meno rimossa.
Le difficoltà si presentano quando ci troviamo a gestire la morte da protagonisti perché dentro noi, scatta un meccanismo di difesa che ci impedisce di realizzare che non siamo immortali e che prima o poi la morte colpirà ognuno di noi; siamo troppo attaccati alla nostra vita che temiamo di perderla ma, soprattutto, abbiamo sempre il timore che questa sopraggiunga nel momento sbagliato, quando ancora non è stato terminato il nostro compito o quando ancora non abbiamo raggiunto il nostro obiettivo, forse è proprio per questo che ci affanniamo tanto a costruire la vita, senza però renderci conto, che in realtà noi “costruiamo la nostra vita proprio sopra la morte perché per ogni giorno che viviamo, la nostra vita già diminuisce”. L’ostacolo più grande da superare è però quello di una morte improvvisa, di un giovane, di un innocente o, addirittura, quella di un bambino per un genitore. Anche se oggigiorno, siamo costantemente bombardati da immagini di morte, queste non servono a coscientizzarci sull’evento in quanto ci viene mostrato un qualcosa di asettico, privo di dolore e di sofferenza.
Dalla comparsa del genere umano sulla Terra, l’evento morte è sempre stato affrontato e tramandato come una fase importante della vita.

Morte nella storia: nelle culture primitive, la vita si sviluppava intorno al nucleo familiare, in modo da garantire la sopravvivenza di ogni singolo membro, ed è proprio grazie a questo forte senso di appartenenza che con la morte di un componente del gruppo, sembra che tutta la compagnia cominciasse a morire con lui; si conferisce così alla morte un valore di tipo sociale poiché non colpisce più solo il singolo ma la collettività. Con l’avvento delle prime forme di civiltà organizzate, come ad esempio al tempo del popolo romano, si auspicava una morte rapida, priva di dolore e in giovane età, in modo da garantire che la vita si spegnesse nel pieno fiorire dell’uomo e delle sue virtù, se poi avveniva in battaglia, la persona poteva addirittura essere ricordata per l’eternità. In epoche più recenti, la morte arriva ad assumere l’aspetto di un evento pubblico e quindi spettacolare, basti pensare alle camere funebri organizzate fino all’800, dove chiunque, anche essendo estraneo alla famiglia, poteva accedere, mettendosi al servizio della famiglia stessa. Nella società moderna, la morte come evento di natura pubblica è stata relegata unicamente alle cerimonie di personaggi pubblici o di uomini di stato, e siamo arrivati ad un tipo di concezione in cui la morte è un qualcosa di privato e strettamente legato al nucleo familiare o a quello degli cari. Oltreoceano, la società americana, ci offre il metodo dei “funeral homes”, dove il defunto assume quasi l’aspetto di una merce umana che viene immessa all’interno di una sorta di catena di produzione, che rende la morte un’occasione esibitoria di ricchezza e di ostentazione, di dispendio e di volgare dimostrazione del proprio potere economico.

Morte nella filosofia: già i primi pensatori, definiti i “filosofi degli elementi”, si erano resi conto che la natura avesse sempre gli stessi comportamenti. Talete ricavò, ad esempio, nell’acqua l’elemento principale che dava vita a tutto ed elaborò la famosa legge, secondo la quale, dall’umido nasce la vita mentre dal secco nasce la morte. Più recentemente, Kierkgaard e Nietzsche, hanno elaborato una dottrina più evoluta, per la quale la morte non è un’esperienza ma un sentimento di anticipazione o una perdita dolorosa, che assume unicamente il valore di un’idea che ci facciamo di noi stessi e che attende di manifestarsi a tutti gli esseri umani.

Morte nella religione: anche quando esistevano le religioni politeiste, l’importanza del messaggio divino si espletava nella spiegazione degli eventi e delle catastrofi che l’uomo non riusciva a spiegarsi in altro modo, ma è solo con l’avvento delle religioni monoteiste che la concezione della morte si modifica, arrivando ad influenzare massimamente le culture moderne e il loro agire. Sembra infatti che colui che ripone la sua vita e quindi la sua morte, nelle mani di una delle tante divinità in questione, affronti la morte in modo sereno, poiché si introduce una nuova vita, la Vera Vita, quella che segue dopo la nostra morte. Si rinnega così la morte rapida perché questa impedisce all’uomo di prepararsi a quello che è il destino soprannaturale, attraverso degli esercizi di devozione e penitenza. La religione è divenuta il mezzo grazie al quale si cerca di dare serenità a tutti coloro che soffrono; anche se oggigiorno è proprio per gli ideali religiosi che si generano guerre, sofferenza e morte (ad esempio le Crociate o più recentemente la Guerra Santa invocata dagli integralisti mussulmani).

Secondo il Codice Deontologico infermieristico, l’infermiere è in grado di gestire la persona e tutte le fasi del percorso assistenziale, ma questa presa in carico comprende una totalità di azioni tra le quali spicca sicuramente la funzione educativa dell’infermiere.
L’educazione in termini generali, prevede la presenza di due figure, facenti parte di un processo attivo: l’educatore e l’educando. In ambito sanitario queste due mansioni sono svolte rispettivamente dall’infermiere che è dotato di una serie di conoscenze e competenze, che gli derivano dalla formazione, dalle sue esperienze lavorative e personali e che gli consentono di svolgere al meglio questo compito, mentre quella dell’educando viene attribuita all’assistito e ai suoi familiari, senza però mai scordarci che anche chi insegna, ha sempre qualcosa da imparare. “Educare” alla morte e al lutto è uno tanti aspetti in cui l’infermiere si trova spesso ad operare, soprattutto se esercita la propria professione in particolari contesti lavorativi.
Lo scopo del mio lavoro è stato forse quello di promuovere ulteriormente una vera e propria “PEDAGOGIA della MORTE” ovvero quel processo che ponga l’esperienza relazionale al primo posto, ricordandoci che questo implica un costante lavoro su di sé molto articolato.
L’infermiere deve ben conoscere quelle che sono le regole generali della comunicazione, perché è stato dimostrato che nelle persone degenti in strutture ospedaliere o di diverso tipo, avere una figura professionale di riferimento a cui chiedere informazioni, giovi molto, per cui immaginiamo quanto possa essere utile in persone che si apprestano a lasciare la propria vita e i propri cari.
La comunicazione non è solo un’insieme di parole che seguono regole grammaticali, ma il linguaggio è un qualcosa di più complesso che prevede la presenza anche del cosiddetto “linguaggio non-verbale” ovvero tutto un insieme di gesti, espressioni, modi di fare che caratterizzano il dialogo tra più persone. È così che il sanitario deve sapersi rapportarsi a diverse categorie di soggetti, porsi sullo stesso livello del suo interlocutore, evitare atteggiamenti paternalistici del tipo “io so cos’è meglio per te…” o “per il tuo bene ti consiglio di…” e di usare un linguaggio prettamente professionale, essere disponibile ad accettare critiche e possibili incredulità verso quanto appena affermato, sapersi mettere costantemente in discussione, trovare il tempo apposito per la comunicazione, essere sempre pronti a ripetere le cose e a chiarire eventuali dubbi; etc.
Ultimamente abbiamo assistito ad un cambiamento di tendenza in ambito sanitario, che non può essere ancora definito radicale e profondo perché molto recente, ma che ha riportato la morte e la sua gestione al centro dell’interesse collettivo. Intanto ci sono stati dei passi in avanti importanti per quanto riguarda la modificazione del lessico per quelle che sono le parole maggiormente utilizzate come “malato terminale”, “cure palliative” e “morte”. È stato opportuno nonché etico eliminare il termine “malato terminale” e sostituirlo con l’espressione “malato nella fase terminale della vita”, perché per una persona che deve già affrontare tutte le difficoltà correlate alla sua situazione, sentirsi definire come “terminale” è come scaturire una sensazione di angoscia e di brutalità di trattamento maggiore. La Fondazione fiorentina FILE, ha fondato il termine “leniterapia” che sta andando, seppur molto lentamente, a sostituire quello di “cure palliative”, poiché sembra che oramai il vocabolo “palliativo”, avesse assunto un significato diverso dall’originale, ovvero quel percorso assistenziale teso a ridurre il dolore e molte altre pene connesse a questa fase, ma un senso riduttivo di cose che non possono più essere curate. Infine il termine “morte”, deve essere utilizzato con maggiore cautela e attenzione, e magari sostituirlo con la formula “fine vita”. Attenzione però a non cercare di nasconderci dietro al fatto di utilizzare maggiore sensibilità verso l’evento, dietro una profonda reazione di tipo emotivo che porta a fare uso di tutta una rete di nomi sostitutivi, metafore, eufemismi, figurazioni retoriche di vario tipo, attraverso i quali si realizza un’evitazione linguistica o tabuizzazione dei nomi concreti che evocano la realtà del morire. All’origine di questi meccanismi linguistici, sembra esserci una specie di ideologia arcaica della parola che corrisponderebbe alla stessa realtà e che, in qualche modo, la evocherebbe. Si assiste così all’utilizzo di termini sostitutivi che possono essere raggruppati in quattro categorie:

1. rappresentazioni della morte come viaggio (è partito, se n’è andato, ci ha lasciati).
2. rappresentazioni della morte come passaggio dalla vita terrena ad una soprannaturale e liberata da vincoli umani (è andato in Paradiso, è andato in cielo, è passato a miglior vita, è tornato a Dio).
3. rappresentazioni della morte come sonno temporaneo o eterno in rapporto alla fede nella resurrezione del giudizio finale.
4. rappresentazioni della morte come evento naturale e termine ineludibile del vivere (ha messo fine alla sua vita, ha concluso i suoi giorni, ha cessato di vivere).

Ci sono poi tutta una serie di frasi, ormai entrate a far parte del gergo popolare quotidiano, come “tirare le cuoia, crepare, schiattare, rompersi l’osso del collo, andare ad ingrassare i cavoli”.
Il fine dell’educazione sta nel cercare di “umanizzare la morte”, favorendone un’accettazione positiva.
Chi è coinvolto nel dramma della morte ed è assoggettato al disinvestimento affettivo per la perdita della persona amata, entra in una serie di comportamenti che costituiscono il fenomeno del lutto o cordoglio e che, da una fase acuta, passano ad espressioni sempre più labili, fino a quando il luttuato, attraverso la definitiva elaborazione del cordoglio, torna alla normalità.
Il cordoglio è un fenomeno individuale e sociale (come lo è tuttavia la morte), che comprende i vari comportamenti indicati come “lutto”, ma si diversifica da questo perché il cordoglio è quasi sempre accompagnato da tentativi di individuare la causa della morte, di attribuirla a qualcuno o ad un evento esterno troppo grande per essere da noi controllato, con lo scopo di ridurre la sensazione di colpa che viene a crearsi verso il defunto; volendo precisare, il cordoglio indica l’insieme delle reazioni interiori e psicologiche alla morte, quindi quel periodo più o meno lungo attraverso il quale i luttuati tornano all’equilibrio psico-sociale. I suoi componenti principali e che lo caratterizzano sono l’angoscia e la depressione.
Il lutto diviene un aspetto pragmatico e comportamentale del crollo individuale e collettivo all’interno di un’esplosione caotica, dove vengono sospese e capovolte le norme del comportamento regolare. Il termine stesso va ad indicare sia la reazione di un soggetto alla morte sia l’insieme dei rituali che seguono l’evento. È possibile individuare delle fasi attraverso le quali questo fenomeno si sviluppa e si esaurisce:

- Fase di negazione: l’individuo ha difficoltà a rendersi conto che la persona sia davvero morta, non riesce ad accettare l’evento emotivamente benché sia consapevole di ciò che è accaduto, c’è una sorta di rifiuto della morte. Può durare alcuni giorni ed essere caratterizzata da shock, negazione, incredulità, stordimento e rabbia.
- Fase di negoziazione: l’individuo “viene a patti” con la morte e riconosce la perdita, ma viene anche sopraffatto da sentimenti di dolore profondo, desiderio struggente della persona amata, tristezza, senso di vuoto, collere verso chi non è riuscito ad impedire la morte (medici, infermieri, soccorritori) o verso il defunto stesso perché lo ha abbandonato, senso di colpa per ciò che avrebbe potuto fare. Può durare alcuni mesi o addirittura anni e d essere caratterizzata da depressione, disperazione ed incapacità di condurre la stessa vita di prima.
- Fase di accettazione: l’individuo riesce ad andare incontro ad un processo di riorganizzazione in cui il dolore si attenua, c’è il distacco dalla persona amata e un riaffacciarsi alla vita anche se in modo diverso.

Queste tre fasi costituiscono un processo che prevede regressioni e sovrapposizioni, per cui, affinché possa essere completato, è necessario che le emozioni relative ad ogni fase, possano essere vissute ed elaborate.
Il punto essenziale differenziante tra cordoglio e lutto sta nella dinamica prevalentemente intrapsichica del primo e nella qualità comportamentale del secondo.
Questa fase di elaborazione non coinvolge solo le persone vicine al defunto, ma interessa anche gli operatori che sono continuamente sottoposti a questo tipo di “lavoro emotivo”. Infatti se durante il processo di cura, bisogna allontanare il pensiero della morte per non aver difficoltà ad agire (come nella somministrazione di una chemioterapia), durante la fase di accompagnamento alla morte o durante la fase di elaborazione del lutto, può subentrare una vera e propria negazione di quanto sta avvenendo come una sorta di meccanismo di difesa contro il fallimento dell’onnipotenza della medicina.
Il nostro compito è quello di cercare di instaurare, con chi ne ha bisogno, una relazione d’aiuto, di rappresentare un appoggio, dando la possibilità di condividere con noi il dolore e di esprimere liberamente le emozioni connesse all’evento. È insito e di fondamentale importanza, garantire delicatezza e discrezione, nonché evitare frasi del tipo “io so cosa provi”, perché la morte ha una dimensione del tutto diversa per ciascuno di noi. Questo ci permette di intervenire su una situazione di per se molto difficile, senza necessariamente agire; infatti non sempre il fare qualcosa all’atto pratico, aiuta la persona e, la smania di attività, è spesso soltanto un modo di vincere il nostro senso di impotenza. Dare un supporto psicologico, significa “stare”, “esserci”, rappresentare un punto di riferimento e di stabilità all’interno di una situazione caotica. In questa relazione d’aiuto, non esiste uno schema prefissato, sia perché dobbiamo modulare il nostro intervento in base ai segnali che ci trasmette la persona, sia perché dobbiamo tenere di conto delle nostre caratteristiche personali, ovvero di come siamo e di come ci rapportiamo agli altri, per evitare di andare incontro ad atteggiamenti non autentici e spontanei.
Il nostro lavoro così come quello di altre figure professionale, vedi i pompieri o la polizia, prevede la presenza della morte come uno dei fattori caratterizzanti; sembra infatti che per questi tipi di lavoro, le persone siano preparate ad affrontare l’evento-morte, anche se l’acquisizione della capacità di mantenere il distacco emotivo dagli eventi luttuosi, risulta spesso difficile da apprendere e, ancor prima, da accettare. Assistere alla morte di qualcuno, fa riemergere lutti personali e riaprire ferite che sembravano risarcite, ma che in realtà sono rimaste lì in attesa che un evento le facesse nuovamente riaprire. Provare di nuovo il proprio dolore, provoca delle difficoltà nel gestire l’assistito e i familiari, perché il professionista si trova obbligato a lenire la propria sofferenza e a controllare il proprio dolore, che la visione del bisogno altrui viene ad offuscarsi.
Il nostro mestiere non è né una missione né un mandato rivolto a pochi eletti, ma dev’essere insito in coloro che lo svolgono, una sorta di sentimento interiore che, in termini molto utopistici, ci fa quasi considerare noi stessi come il mezzo attraverso il quale si realizza il destino altrui. Nasce così quello che si definisce un rapporto di “empatia”, letteralmente tradotto come “sentire con l’altro”, ma che più propriamente, suggerisce un modo di essere del professionista che arriva a percepire la cosa, identificandosi con la persona attraverso la concezione del “come se fossi lui”, senza però mai perdere di vista la condizione del suo agire professionale.
La scelta del luogo di morte, quando può essere fatta da parte del diretto interessato, negli ultimi anni, sembra essere maggiormente rivolta all’ambiente domiciliare, dove sono presenti tutti gli agi e i valori personali, senza alcun tipo di restrizione legato all’ambiente ospedaliero o all’orario. È importante sentirsi a proprio agio in casa, essere fra i propri cari e, allo stesso tempo, non sentirsi un peso per loro, nonché avere la possibilità di organizzare in tempo le cose con le persone amate e l’opportunità di dire “addio”. Nonostante ciò, ancora oggi, l’ospedale, che è un luogo adatto ad accogliere ed ad erogare prestazioni in fase acuta di malattia, è il luogo dove avviene circa l’80%
dei decessi totali; da uno studio di medici, sociologi e psicologi è stato dimostrato che il morire in ospedale, avviene in un completo e angosciante isolamento.
A livello domiciliare, si stanno facendo strada ormai da anni, le Unità di Cure Continue (UCC), che intervengono quando tutte le terapie hanno fallito ovvero quando la guaribilità della persona, non è più possibile, per cui bisogna decidere di abbandonare ogni tentativo curativo per dedicarsi esclusivamente, al mantenimento del più alto grado di qualità di vita possibile. L’etica della qualità della vita, si presenta come un’impresa umana, i cui fini prioritari, trovano espressione in due principi fondamentali:

1. principio del rispetto del diritto dell’autodeterminazione responsabile dell’individuo adulto e autocoscienza nell’ambito delle scelte più intime e personali.
2. principio del miglioramento della qualità di vita o della diminuzione-minimizzazione della sofferenza delle persone coinvolte.

Ciò che caratterizza e che dà peculiarità a questo tipo di assistenza, è l’ascolto delle storie di vita delle persone, che diventa proprio il bisogno principale dei soggetti coinvolti, in modo da permettere al sanitario di entrare in contatto con lui e di comprendere su quale terreno si stia muovendo. Attraverso queste storie di vita ci viene offerta la chiave di lettura e di ingresso alle dinamiche familiari, per poter aiutare la persona così come vorrebbe che fosse fatto. Vivere la morte di un congiunto, non come un evento istantaneo e carico di sofferenza, ma come un processo dinamico che va accompagnato insieme al malato da tutte le persone coinvolte nell’assistenza, cercando e proponendo obiettivi condivisi e raggiungibili, risulta essere il più grande risultato che un’equipe di cure palliative, possa ottenere. Se da un punto di vista medico, la leniterapia è una terapia analgesica o che comunque, tende a controllare la sintomatologia presente, dal punto di vista della presa in carico dell’assistito, esse sono molto di più. Tuttavia la medicina palliativa non è scevra da forti contraddizioni interne, proprio per la sua netta posizione nei confronti della morte, che è riconosciuta come un evento naturale che non dev’essere accelerato né tanto meno ritardato. Uno degli scogli che ci si presenta in questo ambito, è il problema molto dibattuto della verità. Ciascun membro di un’equipe, dovrebbe essere messo nelle facoltà di non nascondere niente al diretto interessato, ma molte volte questo non avviene per voleri e motivi diversi; è così che ci ritroviamo di fronte persone che non sanno di dover morire (anche se, in realtà, penso che dentro di loro siano ben coscienti della situazione), familiari che non sanno come comportarsi visto che non possono lasciarsi sfuggire il minimo segno di sofferenza e, infine, figure professionali che agiscono nell’incertezza di dover/poter dire la verità.
Per concludere, resterà sempre molto difficile poter migliorare nella nostra società, la cultura della morte, se prima non riusciamo a capire che questa è strettamente legata alla cultura della vita; senza questo intreccio non può neanche essere dato un significato al termine “curare”, che dev’essere inteso nella globalità del suo significato ovvero come “prendersi cura” del soggetto (per cui anche se non possiamo sconfiggere la malattia e quindi guarire, possiamo comunque fornire assistenza alla persona).

Legislazione di riferimento:
- Costituzione Italiana, articolo 32.
- Legge 644/75, articoli 3 e 4.
- Legge 578/93, articoli 1, 2, 3 e 4.
- Decreto 582/94, articoli 1, 2, 3, 4, 5 e 6.
- Codice di Deontologia Medica FNOMCeO, titolo III, capo IV, articoli 30, 31 e 32.
- Codice di Deontologia Infermieristico IPASVI, articoli 1, 3 e 4.
- Legge 145/01, articoli 5 e 10.
- Carta di Pontignano 2002.

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