Parole ebraiche e spiritualità della persona alla fine della vita

Il 5 marzo 2014 presso l’Ordine dei Medici della Provincia di Firenze si è svolta la tavola rotonda dal tema “La Spiritualità del paziente nell'era della tecnologia” a cui ha partecipato il prof. Andrea Lopes Pegna, il quale gentilmente ci ha concesso di pubblicare la relazione da lui presentata dal titolo Parole ebraiche e spiritualità della persona alla fine della vita.

Prendo spunto da cinque parole ebraiche per cercare di sintetizzare quale dovrebbe essere l’approccio del medico con l’ammalato per fare fronte ai suoi bisogni non solo fisici e psichici, ma anche spirituali. Questo anche nel mondo di oggi in cui, come ha sottolineato il filosofo Salvatore Natoli (docente e filoso italiano nato nel 1942, vedi il saggio “L’esperienza del dolore nell’età della tecnica”), l’ultima chance di fronte alla sofferenza non lenibile di una malattia ormai in fase avanzata non è più rappresentata dalla preghiera come una volta ma dalla medicina perché anche il più credente tra gli uomini dimentica la preghiera fin quando non ha consumato tutte le ultime chance della tecnologia che oggi la medicina mette a disposizione

Le cinque parole sono hineni, lev shomea, emèt, qedem/qadimah e amavet/avalad

Hineni significa in ebraico antico “eccomi” e si riferisce al versetto della Torah ”Dopo queste cose Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose «Eccomi (hineni)!» (Genesi 22,1). Per entrare nei bisogni spirituali degli ammalati di cui ci prendiamo cura è indispensabile infatti la nostra disponibilità per l’altro col rispetto della sua individualità; non dovrebbe quindi creare scandalo dire che se ti squilla il cellulare chiamato da un tuo ammalato e in quel momento non puoi rispondere, è bene che tu richiami chi ti ha chiamato, così da avvicinarti a lui e renderti veramente disponibile.
Emmanuel Lévinas (1906-1995), filoso ebreo francese, di origine lituane così scriveva:
[…] L’obbligo fondamentale che abbiamo è quello di metterci a disposizione del bisogno (specialmente della sofferenza) dell’altra persona … mi viene comandato di dire hineni! … Quanto più vicino mi faccio ad un altro – considerando i comuni livelli di vicinanza (in particolare, ad esempio in una relazione di amore) – tanto più sono tenuto a essere consapevole della mia distanza dall’afferrare la realtà insita nell’altro, tanto più sono tenuto a rispettare questa distanza
[…] l’intuizione fondamentale della moralità consiste forse nel percepire che io non sono “uguale” agli altri, e in un senso molto preciso: io mi vedo “obbligato” dallo sguardo d’altri e di conseguenza sono infinitamente più esigente verso me stesso che verso gli altri
Hilary Putman (1926, filosofo e matematico ebreo californiano) così scriveva riguardo a questo pensiero di Lévinas (“Filosofia ebraica, una guida di vita” - Carocci Ed. 2011)
[…] Quel che qui è originale è l’idea che l’etica può - e deve – essere basata su una relazione con le persone, ma una relazione che sia totalmente priva di narcisismo, con l’ulteriore accentuazione che per essere privi di narcisismo si deve rispettare l’”alterità”, la poliedrica differenza dell’altro.

“lev shomea” significa “un cuore che ascolta” ed è riportata nel I libro dei Re (Profeti anteriori - Neviim) “Dà dunque al tuo servo un cuore intelligente perché io possa amministrare la giustizia per il tuo popolo e discernere il bene dal male” (I libro dei Re 3, 9); un cuore “che ascolta” è tradotto come “intelligente” proprio perché l’ascolto non deve essere passivo, ma deve impegnare la propria mente. È indispensabile imparare ad ascoltare i bisogni dell’ammalato non solo in modo intelligente ma anche come se fosse il bisogno “in seconda persona” cioè come quello di una persona a te cara. Allo stesso modo con cui viviamo i bisogni del nostro ammalato, possiamo vivere la sua ultima fase della vita e la sua morte.
Vladimir Jankélévitch, (1903-1985), ebreo di famiglia russa emigrata in Francia, che ha insegnato filosofia morale all’Università della Sorbona e che ha scritto nel 1966 il libro “La morte” dove sono riportate le sue lezioni agli studenti su questo tema, parla appunto di morte in “prima, seconda e terza persona”.
Riguardo alla morte in “terza persona” Jankélévitch così scrive:
[…] È la morte in generale, la morte astratta e anonima, o anche la morte propria, nella misura in cui è considerata da un punto di vista impersonale e concettuale, nel modo in cui, ad esempio, un medico considera la sua propria malattia, o studia il suo caso, o formula la propria diagnosi.
[…] La morte in terza persona è un oggetto come un altro, un oggetto che si descrive o si analizza da un punto di vista medico, biologico, sociale, demografico e che rappresenta quindi il colmo dell’oggettività atragica.”.
Riguardo alla morte in “prima persona” J. invece afferma che
[…] È sicuramente fonte di angoscia; è un mistero che mi concerne intimamente e nel mio tutto. È di me che si tratta, me che la morte chiama personalmente col mio nome, me che si addita e si tira per la manica.
[…] Chi sta per morire muore da solo, da solo affronta quella morte personale, che ciascuno deve morire per suo proprio conto, da solo compie il passo solitario che nessuno può fare al nostro posto e che ciascuno, arrivato il momento, farà per sé singolarmente. Non c’è qualcuno ad aspettarci sull’altra riva. Nessuno verrà ad augurarci il benvenuto alle porte della notte. Anche Pascal, come è noto diceva: “Morremmo soli”. Cos’è d’altronde l’assistenza religiosa, se non una sorte di tentativo impotente e puramente simbolico per popolare la solitudine del passo più disperatamente solitario di tutta la vita, per scortare il viaggiatore durante l’ultimo viaggio?
[…] Non si deve lasciare solo colui che sta per morire
[…] Senza dubbio l’idea del “soccorso” in generale, auxilium, risponde a questa preoccupazione di accompagnare o circondare l’uomo solo.
[…] Purtroppo l’istante supremo non comporta compagni di strada. Si può “aiutare” il moribondo isolato, o in altre parole vegliare l’uomo in istanza di morte fino al penultimo istante, ma non lo si può dispensare dall’affrontare l’ultimo istante da solo e in prima persona.
[…] Così come la religione, il razionalismo ha la fobia della solitudine della morte.
[…] Conformemente all’esperienza della tragedia, nel Fedone, non si permette che Socrate resti solo nemmeno un minuto ad attendere la straziante solitudine della morte, né che taccia un solo minuto in attesa del grande silenzio definitivo della morte: gli ultimi momenti di Socrate saranno dunque un lungo dialogo che riempie di frasi ragionevoli i vuoti del silenzio che anima la solitudine desertica dell’agonia.
La morte in “seconda persona” viene infine affrontata in questo modo dal filosofo della Sorbona
[…] Tra la morte dell’altro, che è lontana e indifferente, e la morte-propria, che tocca il nostro stesso essere, c’è la prossimità della morte del prossimo. La morte di un essere caro è quasi come la nostra, quasi altrettanto lacerante della nostra
È così indispensabile non abbandonare l’ammalato soprattutto nell’ultima fase della sua esistenza, quando maggiori sono i suoi bisogni ma cercare di stargli vicino con la stessa partecipazione che potremmo avere per una persona a noi cara.
Sempre Salvatore Natoli così afferma (L’esperienza del dolore nell’età della tecnica):
[…] Quando poi noi incontriamo il paziente nella situazione di malattia terminale, o nella situazione in cui la tecnica non funziona più, cosa gli diciamo? Nella maggior parte dei casi, i medici fuggono, anche perché l’oggetto reale della medicina e del medico, a partire dalla clinica, non è il malato, è la malattia. Il grande combattimento è la malattia. Quando il medico non può più curare la malattia, è inevitabile che fugga.
[…] Non perché i medici siano cattivi o superficiali, ma perché l’oggetto del medico è la medicina, mentre l’oggetto dell’infermiere è il corpo dolente del malato, che lo chiama, suona il campanello, deve soddisfare i suoi bisogni corporali. C’è la grevità del corpo: lui, non astrattamente la malattia.
[…] “Quando il medico dell’arto o il medico della funzione non funzionano più, facciamo entrare il tecnico dell’anima”

La parola“emèt” significa verità; le tre consonanti che formano la parola (alef, mem, taw) compendiano l’intero alfabeto alludendo alla totalità del divino (dal midràsh Genesi rabbàh LXXXI.2).
La relazione e la comunicazione non può che essere vissuta in un clima di verità perché possa essere data la corretta informazione sulla storia di malattia dell’ammalato, indispensabile non solo per la continua ridefinizione degli obiettivi di cura, ma soprattutto per essere vicini anche ai suoi bisogni spirituali. Il medico dovrebbe sempre ricordare che è l’ammalato a decide di volere essere informato e che anche se un suo famigliare chiede di non informarlo è dovere del medico rispettare la volontà del paziente.
Jerry L. Old, geriatra e medico di famiglia americano, così ricorda che, anche se può risultare faticoso il rapporto con l’ammalato alla fine della vita in un clima di verità, questo rapporto può essere veramente gratificante
[…] Quando un paziente si rende conto che la propria morte è vicina, vive un momento di enorme crescita personale. Aiutare i pazienti in questo loro percorso può essere una delle cose più gratificanti che un medico può fare in medicina. È richiesto per questo che il medico si senta a proprio agio quando pensa al proprio stato di finitezza e sappia rimuovere le barriere tra sé e il paziente. I medici che esercitano cure di fine vita sanno che è “OK” essere strettamente legati ai propri pazienti e vivere le emozioni che essi vivono.

Ponendosi dalla parte dell’ammalato e della persona alla fine della vita, si potrebbe pensare, come ha scritto Primo Levi (1919 – 1987), che i credenti possano avvicinarsi alla morte in modo meno traumatico rispetto ai non credenti; basti pensare a questo proposito a come ci ha lasciato il Cardinale Martini. Primo Levi così ha scritto in Sommersi e Salvati (Einaudi 1986):
[…] Come Améry, anch’io sono entrato in Lager come non credente, e come non credente sono stato liberato ed ho vissuto fino ad oggi; anzi, l’esperienza del Lager, la sua iniquità spaventosa, mi ha confermato nella mia laicità. Mi ha impedito, e tuttora mi impedisce, di concepire una qualsiasi forma di provvidenza o di giustizia trascendente: perché i moribondi in vagone bestiame? perché i bambini in gas? Devo ammettere tuttavia di aver provato (e di nuovo una volta sola) la tentazione di cedere, di cercare rifugio nella preghiera. Questo è avvenuto nell’ottobre del 1944, nell’unico momento in cui mi è accaduto di percepire lucidamente l’imminenza della morte: quando, nudo e compresso fra i compagni nudi, con la mia scheda personale in mano, aspettavo di sfilare davanti alla «commissione» che con un’occhiata avrebbe deciso se avrei dovuto andare subito alla camera a gas, o se invece ero abbastanza forte per lavorare ancora. Per un istante ho provato il bisogno di chiedere aiuto ed asilo; poi, nonostante l’angoscia, ha prevalso l’equanimità: non si cambiano le regole del gioco alla fine della partita, né quando stai perdendo. Una preghiera in quella condizione sarebbe stata non solo assurda (quali diritti potevo rivendicare? e da chi?) ma blasfema, oscena, carica della massima empietà di cui un non credente sia capace. Cancellai quella tentazione: sapevo che altrimenti, se fossi sopravvissuto, me ne sarei dovuto vergognare.
[…] Non solo nei momenti cruciali delle selezioni o dei bombardamenti aerei, ma anche nella macina della vita quotidiana, i credenti vivevano meglio: entrambi, Améry ed io, lo abbiamo osservato. Non aveva alcuna importanza quale fosse il loro credo, religioso o politico. Sacerdoti cattolici o riformati, rabbini delle varie ortodossie, sionisti militanti, marxisti ingenui od evoluti, Testimoni di Geova, erano accomunati dalla forza salvifica della loro fede. Il loro universo era più vasto del nostro, più esteso nello spazio e nel tempo, soprattutto più comprensibile: avevano una chiave ed un punto d’appoggio, un domani millenario per cui poteva avere un senso sa-crificarsi, un luogo in cielo o in terra in cui la giustizia e la misericordia avevano vinto, o avrebbero vinto in un avvenire forse lontano ma certo: Mosca, o la Gerusalemme celeste, o quella terrestre.

Pensando invece a come potremmo aiutare i non credenti a vivere l’ultima parte della loro vita, ho interrogato a questo proposito Stefano Levi Della Torre (nato nel 1942, pittore, saggista ebreo e autore del recente libro “Laicità, grazie a Dio”); Stefano Levi della Torre così mi ha risposto:
[…] Forse si può lavorare sul senso lato di "eredità", di qualcosa che si lascia ad altri; ma per poter credere in una propria eredità bisogna avere ancora, fino alla fine, un certo senso di sé, il senso di una propria qualche importanza o interesse. Che sia reale o un'illusione. E quelli che hanno perduto la stima di sé, umiliati da malattia umiliante? Certo, la religione è consolatoria, presuppone che un Qualcuno ci ascolti, un Qualcuno a cui affidarsi, su cui proiettare il nostro estremo bisogno di ascolto e di abbandono. Ascoltare è un'opera di misericordia estrema, una valorizzazione magari minima anche di chi si sente un nulla che va verso il nulla. Ma certo è duro dare ascolto a un lamento spesso vacuo e ripetitivo di chi non spera più nulla da se stesso, di chi ha perduto la considerazione di sé. Forse la memoria, aiutare la memoria di qualcosa che il morente ha fatto nella vita per aiutare il suo sogno di lasciare qualcosa in eredità. Nella Bibbia qualcuno muore "sazio di giorni": forse c'è da augurarsi questa "sazietà" nella fine? E come interpretare questa sazietà di giorni? O forse è meglio sparire non ancora sazi, ancora pieni di vita e di illusioni benefiche?

Riguardo alla memoria riporto le parole

qedem” che significa “passato”, “antichità”, “tempi antichi”, ma anche “oriente”

gan eden miqedem” significa appunto “un giardino in Eden dall’oriente”; questo significato si ritrova ne Pentateuco: “Or il Signore Iddio piantò un giardino in Eden, dall’Oriente, e vi pose l’uomo ch’egli aveva formato” (Gen 2,8)

Dalla parola qedem deriva però anche la parola

qadimah” che in ebraico moderno significa “avanti”, nel Talmud “prima o davanti” a seconda dei contesti e nella Bibbia “verso est”. Significa quindi nello stesso tempo progresso e passato; per gli ebrei della diaspora l’oriente non è più la Mesopotamia, ma Gerusalemme (tre volte al giorno gli ebrei pregano rivolti infatti verso Gerusalemme e, ogni sinagoga ha il suo muro orientale dove si rivolgono per pregare; gli ebrei osservanti da sempre, e ancora oggi, guardano così letteralmente e contemporaneamente avanti, verso est e verso il passato remoto, tutto in una volta. Rivolgersi alla memoria del passato è anche rivolgersi al futuro. Rabbi Adin Steinsaltz (1937 talmudista israeliano contemporaneo) dice che quando parliamo ebraico ci troviamo letteralmente nel tempo con la schiena rivolta al futuro e il volto verso il passato. Chi parla ebraico, guarda letteralmente verso il passato.

Salvatore Natoli afferma sempre in “L’esperienza del dolore nell’età della tecnica”:
[…] Non ci si compie nell’attimo, ma la perfezione dell’uomo è nel portare a compimento la propria vita. E i Greci lo sapevano: temete l’attimo, è inganno. La felicità dell’uomo la si vede nel compimento della sua vita: non vita eterna, ma vita lunga. Perché questo avvenga, non bisogna cercare la libertà nell’innocenza dell’attimo, ma assumere per intero il peso della propria finitudine, “divenire legge a se stessi”, fino a quella perfezione estrema di portarsi all’altezza della propria morte.

Da qui scaturiscono le ultime due parole

מִשֶּׁמֶן
amavet” che significa “morte” e

וְיוֹם
avalad” che significa “nascita”

Queste due parole fanno parte del versetto “vaiom amavet miom avalad” cioè “Il giorno della morte è migliore del giorno della nascita” come viene scritto nel libro di Qohelet (Qo 7,1). Questo versetto non vuol dire è meglio morire che nascere, ma, come afferma Paolo De Benedetti (teologo, biblista), «[…] vuol dire che il giorno della morte è più ricco di conclusioni, di esperienze, di realizzazioni e anche di scoperte buone o cattive, piuttosto che il giorno della nascita in cui l’uomo è ancora zero, è migliore il giorno dei bilanci, il giorno della morte che è il giorno della mietitura».

Queste parole sono sicuramente vere, ma perché una persona della propria vita possa fare il bilancio della propria esistenza e pensare alla spiritualità, alla fine della propria vita non deve essere annientata dalla sofferenza.
Sempre Primo Levi così scrive […] Svevo, in La coscienza di Zeno, … descrive spietatamente l’agonia del padre: «Quando si muore si ha ben altro da fare che di pensare alla morte. Tutto il suo organismo era dedicato alla respirazione» (Sommersi e Salvati Einaudi 1986)

Andrea Lopes Pegna

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